Emidio Salvigni, l'amico di Manuel Belgrano

Nato a Imola nel 1789, ufficiale nelle guerre napoleoniche, combattè per la libertà dell'Argentina. E' sepolto a San Miguel de Tucumàn

Emidio Salvigni nacque nell’anno della Rivoluzione Francese, il 1789, a Imola, oggi in provincia di Bologna e allora compresa nello Stato Pontificio. Nella biblioteca comunale come nella toponomastica della città non vi è traccia di questo figlio di commerciante, cresciuto insieme a quattro fratelli e cinque sorelle. La sua vita ha invece lasciato segni in Argentina, a San Miguel de Tucumán, dove gli è dedicata una strada ed è ancora presente la sua tomba monumentale.

Come molti giovani della sua generazione ammaliati dall’astro di Napoleone, Salvigni abbracciò la carriera militare al servizio degli ideali di libertà e uguaglianza, la cui negazione rendeva retrogrado lo Stato della Chiesa. Tramontata la stella di Bonaparte e dissolto l’impero, quei giovani che avevano imparato il mestiere delle armi e romanticamente vivevano nello spazio incerto tra la vita e la morte, non potevano più condurre un’esistenza ordinaria. Si misero al servizio di altre rivoluzioni, altri ideali e avventure, volgendo lo sguardo oltre Oceano, alle Americhe, dove si potevano scrivere nuove pagine di storia. Emidio SalvigniLa carriera dell’imolese Salvigni assomiglia molto a quella del parmense Giuseppe (José) Rondizzoni, l’ufficiale napoleonico divenuto protagonista dell’indipendenza del Cile. Li accomuna anche l’anno di morte, il 1866. Li differenzia il teatro di battaglia, che per Salvigni fu prevalentemente l’Argentina. “La Gaceta”, il giornale di Tucumán, ci racconta la sua storia.

Il figlio di Sebastiano Salvigni e Teresa Mattioli già da piccolo manifesta attitudine per il latino e la retorica. Nel 1803, influenzato dal fratello maggiore Pellegrino, stimato medico e chimico, si iscrive all’Università di Bologna per studiare chimica farmaceutica, ma lo stesso fratello lo indirizza poi agli studi di giurisprudenza, abbandonati nel 1805 quando le truppe francesi fanno la loro comparsa nelle legazioni pontificie di Bologna e Ferrara. Nel giugno di quell’anno l’imperatore Napoleone I arriva a Bologna e infiamma i cuori. Entra da porta da San Felice e fa una memorabile cavalcata fino alla collina di San Michele in Bosco. Ai Prati di Caprara si svolge la spettacolare parata militare. A settembre Salvigni decide di arruolarsi nell’esercito napoleonico. Si presenta come volontario nei Veliti Reali, corpo d’onore composto di giovani borghesi destinati al servizio presso i palazzi reali: la guardia di Napoleone in Italia. Prende il grado di caporale e nel 1812 quello di capitano. Nel 1806-1807 partecipa alla campagna di Dalmazia nel battaglione comandato dal reggiano Carlo Zucchi. Nel 1807 è chiamato a organizzare il terzo battaglione di linea in Italia, quindi inviato in Spagna dove, in un villaggio vicino a Gerona, è ferito alla caviglia. Nel 1813, come aiutante di campo di Zucchi, diventato generale di brigata, partecipa in Sassonia alla battaglia di Bautzen, dove la brigata italiana si distingue nello scontro vittorioso contro la coalizione russo-prussiana. Le guerre napoleoniche gli procurano tre onorificenze: quella dell’ordine della Corona di Ferro, la medaglia di Sant’Elena e la Legiond’Onore.

Crollato l’impero nel 1815, Salvigni è troppo giovane per appendere la spada al chiodo. Sa che diversi ufficiali europei vanno a offrire i loro servizi all’esercito delle Province Unite del Rio de la  Plata, che lotta per l’indipendenza dell’Argentina dalla Spagna. S’imbarca anche lui per il Rio dela Plata. Accolto con il grado di tenente colonnello di fanteria, è destinato all’Esercito del Nord, acquartierato a Tucumán sotto il comando del generale Manuel Belgrano, uno dei padri fondatori dell’Argentina, sostenitore della laicità dello Stato, del liberismo economico e creatore della bandiera, ispiratagli dal cielo azzurro di una mattina di sole sul fiume Paraná. Uomo colto, elegante, Belgrano voleva che i suoi ufficiali si distinguessero per l’urbanità dei modi e la conversazione. Il generale nominò Geronimo Helguera suo primo aiutante e Salvigni come secondo, e dopo due mesi aiutante a tutti gli effetti.

Uno dei salotti cittadini più in voga era quello della casa del commerciante spagnolo José Ignacio de Garmendia e di sua moglie, appartenente alla nobiltà locale. Qui fu favorito il matrimonio tra le loro tre figlie e tre distinti ufficiali, due dei quali erano Helguera e Salvigni, e il terzo il futuro presidente del Cile, Francisco Antonio Pinto Diaz. Il generale Belgrano fece da padrino alle triplici nozze celebrate nella Chiesa Madre di Tucumán lo stesso giorno del 1817. Si conserva ancora il gioiello che regalò a Cruz Garmendia Alurralde, la sposa di Salvigni.

Nel febbraio 1820 Manuel Belgrano, gravemente malato, iniziò l’ultimo viaggio della sua vita, da Tucumán a Buenos Aires, dove sarebbe morto il 20 giugno, tre mesi dopo l’arrivo nella capitale. Lo accompagnavano i suoi più fedeli aiutanti, il colonnello Helguera, il tenente colonnello Salvigni, il capitano José Villegas e il medico José Redhead. Per l’amore che gli argentini portano al loro generale, è questo il merito più grande dell’imolese: aver assistito Belgrano sul letto di morte.
Salvigni passò poi agli ordini del generale Soler, per il quale combatté a Cañada de la Cruz.Fu fatto prigioniero da Estanislao Lopez e liberato quando il maggiore Ovando attaccò Pergamino. Nel luglio 1820 si unì alle forze di Manuel Dorrego e subito dopo chiese, senza successo, di essere destinato all’Esercito delle Ande. Nel 1821 ottenne di essere messo in congedo assoluto e tornò a Tucumán.

Chiusa la carriera militare, dal 1827 al ’29 fu membro e, nell’ultimo anno, presidente, della “Sala de Representantes”, formata dai notabili della Provincia. Ma la guerra civile lo trascinò di nuovo nella mischia. Con un corpo di civili, difese Tucumán dalle forze di Facundo Quiroga, mettendosi agli ordini di Joaquin Bedoya. La sconfitta di questi lo costrinse a emigrare in Cile nel 1831 portando con sé il figlio Emidio Segundo, mentre la moglie Cruz restava a Tucumán. In Cile, a Copiapó, si dedicò allo sfruttamento delle miniere insieme con tre soci. Nelle carte di suo nipote Federico Helguera - figlio di Crisanta Garmendia, la moglie di Geronimo Helguera - è scritto che gli affari andavano bene: la macchina di amalgamazione dell’argento assicurava un buon reddito. Ma quando la guerra arrivò nel sud del Cile, la situazione cambiò. L’economia andò in crisi e per portare le merci a Tucumán occorreva pagare molte tasse.  La sfortuna, poi, fa presto a trasformarsi in tragedia: a fine dicembre del 1851, durante uno dei tanti disordini portati dalle rivoluzioni, una pallottola impazzita uccide il figlio di Salvigni. Distrutto dal dolore, il coraggioso ufficiale delle battaglie napoleoniche, l’amico di Belgrano, non trova la forza di comunicare la notizia alla moglie. Doña Cruz è gracile, malata, soffre di allucinazioni. Salvigni decide di guadagnare tempo con una pietosa menzogna. Le fa credere che il figlio è vivo, le manda alcune lettere imitandone la scrittura. E va avanti così per mesi, fino al settembre 1852.

Dopo la battaglia di Caseros, Salvigni torna a Tucumán con il dodicenne Agustín, il pronipote che gli era stato inviato a Copiapó per fargli compagnia. Nel 1858 restaura a sue spese la piramide che Belgrano aveva fatto erigere nel 1818 in memoria della battaglia di Maipú, riparandola anche con un’inferriata: è la stessa che vediamo ancora oggi, con i suoi marmi ben sistemati, in piazza Belgrano. Nel 1862 Salvigni redige il suo testamento nominando erede universale il giovane Agustín. E’ profondamente disilluso, tanto da consigliare a Helguera e Agustín di andarsene a Buenos Aires, dove “potranno più facilmente evitare i compromessi politici che nelle guerre civili mettono in pericolo l’esistenza dei cittadini”. L’amareggiato guerriero – di cui ci resta solo una fotografia in tarda età - si spegne nel 1866, l’anno in cui l’Italia completa con la terza guerra d’indipendenza la sua unificazione. All’altro capo del mondo, nel Cimitero dell’Ovest di San Miguel de Tucumán riposa l’ufficiale emiliano-romagnolo che aveva creduto nella libertà dei popoli. Sulla sua tomba, un angelo di bronzo con le ali spiegate suona la tromba del giudizio universale. Il suono ricorda quello delle cento battaglie combattute da Salvigni.