Augusto Ferrari, accademico ed eretico
Il contributo italiano alla cultura architettonica argentina è noto: ha dato luogo a opere monumentali e significative come Casa Rosada, Palacio del Congreso, Palacio Barolo, Teatro Colón, Confitería del Molino e molte altre. Tra queste opere, è interessante riconoscere quelle “targate” – se così si può dire - Emilia-Romagna: la chiesa degli Italiani (dedicata alla Mater Misericordiae) a Buenos Aires, dell’ingegnere romagnolo Emilio Rosetti (1870); sempre nella capitale, l’Hotel Windsor dell’architetto parmense Raúl Levacher, che in coppia con Emilio Agrelo disegnò anche nel 1889 le splendide Galerías Pacifico, cuore dello shopping porteño; a Córdoba, la Galería La Central e il Gran Hotel Victoria in stile Art Nouveau di Ubaldo Emiliani, oriundo di Faenza; a Buenos Aires, l’edificio Tattersal nell’Ippodromo e il padiglione per gli elefanti allo Zoo, opera del ferrarese Virgilio Cestari. Ma la figura più interessante, per noi, è quella di Augusto César Ferrari, cui il Centro Cultural Recoleta di Buenos Aires, su impulso della figlia Susana, ha reso nel 2002 un meritato omaggio.
La mostra in Recoleta e il volume delle edizioni Licopodio uscito nel 2003 hanno permesso di leggere in una prospettiva nuova l’opera di Augusto C. Ferrari, nato a San Possidonio, in provincia di Modena, nel 1871. Il suo lavoro si distingue per un evidente eclettismo che lo fa spaziare dall’architettura alla pittura e alla fotografia, all’incrocio tra naturalismo e astrazione stilistica.
Ferrari diventò architetto per imposizione paterna: svezzato a Modena da una balia scesa dall’Appennino, studiò architettura all’Università di Genova concludendo la sua formazione nel 1892. Si trasferì poi a Torino per studiare pittura all’Accademia Albertina e Stili antichi e moderni presso il Regio Museo Industriale. A Torino ebbe come maestro di pittura Giacomo Grosso, autore dello scandaloso “Sacro Convegno” esposto alla Biennale di Venezia del 1895 (l’ultimo convegno delle amanti di Don Giovanni intorno al cadavere del loro seduttore), da cui prese forse il gusto di una pacata ironia, evidenziando come l’iconografia religiosa, utilizzata per i suoi lavori nelle chiese, sottintenda un sottile impulso sensuale. Questa relazione tra arte e religione sarà però molto più esplicita nelle opere di suo figlio León, come vedremo.
Augusto Ferrari a Torino si dedicò anche alla fotografia e si specializzò sotto la guida di Giacomo Grosso nella realizzazione di “panorami”. Il panorama era un genere pittorico dell’Ottocento, precursore dell’iperrealismo, delle installazioni e della realtà virtuale. Si trattava di grandi murales trasportabili che occupavano le pareti di una sala circolare e che spiazzavano lo spettatore, sistemato al centro della sala, creandogli l’illusione di trovarsi in un altro scenario, ad esempio dentro un paesaggio esotico o una famosa battaglia. Ferrari collaborò con Grosso al panorama de La Battaglia di Torino e, nel 1910, a quello de La Battaglia di Maipú, commissionato dal governo argentino per il centenario della Rivoluzione di maggio, e lungo 124 metri per 15 di altezza. Nello stesso periodo la società Cine-Films incaricò Ferrari della realizzazione del panorama di Messina distrutta dal terremoto del 1908, che fu inaugurato il 7 luglio 1910 a Torino nel Padiglione circolare del Valentino.
Nel 1914 Ferrari sbarcò a Buenos Aires per gestire, per conto dei proprietari, l’esposizione del panorama di Messina, annullata poi per la crisi economica. Il pittore modenese si sistemò presso il convento dei Padri Cappuccini a Nueva Pompeya, un quartiere della capitale. Per i suoi ospiti decorò le pareti del refettorio e dipinse ritratti di sacerdoti. Durante i lavori nella Cappella del Divino Rostro conobbe Susana Celia del Pardo che sposò nel 1917. Due anni prima era stato incaricato del panorama de La Battaglia di Tucumán e di quello de La Battaglia di Salta, entrambi lunghi 95 metri e alti 11. S’innamorò dell’Argentina viaggiando nelle zone delle battaglie per documentarsi e prendere fotografie.
Tra il 1917 e il 1922 restaurò e decorò la chiesa di San Miguel a Buenos Aires, incendiata durante la rivoluzione del 1955, l’anno in cui rimase ferito durante una manifestazione perdendo un occhio. Per questa chiesa, oltre a modificare l’architettura esterna, dipinse 120 quadri. Interessanti sono le fotografie dei modelli utilizzati da Ferrari per i bozzetti di dipinti come LeNozze di Cana o L’Ultima Cena che citano il Rinascimento romano: lui, la moglie, altri membri della famiglia o persone trovate in strada sono travestiti da personaggi biblici, con turbanti, corone di cartone, barbe posticce, tuniche di tela, copricapi improbabili. Traspare da questa messinscena di profeti, santi, messia e martiri nudi un gran divertimento e forse un intento dissacratore. La stessa cosa può dirsi per le foto di nudi femminili usati come modelli per la sua pittura di cavalletto. Sono state realizzate durante la sua permanenza in Italia con la famiglia dal 1922 al ’26, sulla costa toscana o nel giardino della sua casa di Torino, tirando una tenda perché i vicini non vedessero. In Italia Ferrari si dedicò allo studio della figura, al nudo, al paesaggio e alle vedute di Venezia, soggiornando a Viareggio, Torino e nella città dei Dogi.
Tornato in Argentina, costruì nel 1927 il chiostro della chiesa di Nueva Pompeya, in uno stile eclettico che mette insieme il romanico, gli influssi arabi e normanni in Sicilia e lo stile conventuale napoletano. L’anno seguente fu incaricato di un nuovo panorama per il centenario della fondazione di Bahía Blanca. La sua opera architettonica più importante resta la grande cattedrale di Córdoba commissionatagli dai Padri Cappuccini, in stile neogotico, decorata con guglie e rosoni, manifesto di un eclettismo che cita la storia dell’arte italiana.
Nel decennio 1930-40 costruì appena fuori Córdoba la chiesa di Villa Allende e una decina di abitazioni tra le quali “La Cigarra” e “El Castillo”, quest’ultima chiamata anche “San Possidonio” in ricordo del luogo natale. In provincia di Córdoba realizzò anche la chiese di Unquillo e, in collaborazione con il figlio León, quella di Rio Cuarto. Numerosi, poi, i progetti architettonici non andati a buon fine, di cui ci rimangono i disegni preparatori.
Barbetta e occhio di vetro segreto, Augusto Ferrari visse un secolo intero (morì nel 1970 a 99 anni), collegando con la sua opera l’Ottocento, di cui era figlio, e il mondo virtuale della contemporaneità. Saltò il Novecento e le avanguardie, da vero accademico eretico.