Intervento di Andrea Segrè

Professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata, Alma Mater Studiorum Università di Bologna

Alberto Manzi e l'educazione alimentare

Cosa direbbe oggi il maestro Manzi su come viene “trattato” il cibo a scuola e in tv? Probabilmente si stupirebbe nel constatare che l’educazione alimentare non rientra nei programmi scolastici e che gli oltre 70 format televisivi che girano nei canali tv sono perlopiù competizioni culinarie, molto virtuali e poco virtuose. Nell’anno di Expo “Nutrire il pianeta” il cibo è al centro del mondo, ma il mondo del cibo non riesce a dare risposte concrete ai problemi alimentari del pianeta. Nonostante la forte pressione sull’uso delle risorse naturali che servono per produrre il cibo – il suolo, l’acqua, l’energia – convivono da una parte la centralità ossessiva del cibo e dall’altra la sua marginalità. Una parte di mondo cerca di mangiare perché ha fame, l’altra si ingegna a non mangiare per dimagrire. Non più, tuttavia, in una suddivisione classica fra paesi ricchi e sazi e paesi poveri e affamati. No, queste equazioni non funzionano più. I dati e i luoghi parlano chiaro: un miliardo di sotto e denutriti, quasi il doppio di sovrappeso e obesi ben distribuiti nei quattro continenti. In somma – e questo il denominatore comune – quasi metà della popolazione mondiale mangia troppo o troppo poco, ovunque. È dunque malnutrita e, almeno in parte, pure maleducata dal punto di vista alimentare. Con tutte le relative conseguenze sulla salute, l’ambiente, l’economia, la società. È un’involuzione, quella del cibo e della sua cultura, che riguarda soprattutto il mondo occidentale: dunque è anche molto globale.

Anche il nostro Belpaese non se la passa bene. La nostra (una volta forte) cultura alimentare sembra essere diventata estranea a se stessa: il disorientamento è palese. E risale, probabilmente, all’ultimo mezzo secolo. Prima, il cibo e le relative pratiche alimentari quotidiane erano ben inserite in un sistema codificato: le stagioni, il lavoro, il piatto domestico, il ceto sociale, la religione, le ricette, il territorio, la produzione, il genere, le feste… Tutto era collegato e collegabile, ripetuto e ripetitivo, e anche assicurante anche dal punto di vista educativo. La sostituzione dell’economia domestica (con le applicazioni tecniche) nelle discipline impartite a livello scolastico per generazioni a livello di media inferiore a partire dalla riforma Gentile, risale proprio a questo periodo: era il 1963. Si impartivano le competenze per la vita famigliare e di comunità: alimentazione, gastronomia, igiene, puericoltura, merceologia, programmazione economica. Da allora, e sono passati più di 50 anni, le cose sono molto cambiate. Fra “oggetti alimentari non identificati”, che spesso chiamiamo cibo spazzatura, nevrosi alimentari, ossessioni salutistiche, messaggi nutrizionali ossessivi, il cibo ha progressivamente perso i suoi riferimenti fondamentali e codificati nel tempo. Così come è mutata la famiglia e la comunità in cui viviamo.

Per questo è fondamentale (ri)partire dall’educazione alimentare. Dobbiamo educare, dal latino ex-ducere “tirare fuori”, invece di “mettere dentro” la pancia cibi cattivi o “inculcare” nutrienti dannosi. Dobbiamo appunto tirare fuori il meglio del cibo, il suo valore. Ecco perché lo spreco alimentare, di cui tanto si parla oggi, rappresenta una prospettiva interessante: se sprechi il cibo vuol dire che non gli dai valore. Dobbiamo restituirgli il valore che merita. Del resto, gli alimenti devono soddisfare un bisogno fondamentale dell’uomo, non un desiderio. Alimentarsi bene, sia dal punto di vista quantitativo (sufficiente) che qualitativo (sano, nutriente), è una necessità. Compito dell’educazione alimentare è “tirare fuori” la consapevolezza di questa necessità per far comprendere che si tratta di un valore e di un diritto, creando una barriera all’onda che entra dall’esterno: la pubblicità, il marketing, le influenze sociali, le mode, gli chef che spadellano in tv. Non è un caso che siano i più poveri culturalmente ed economicamente a soffrire delle patologie legati alla (letteralmente) malnutrizione: mangiare male, troppo poco ma anche troppo. Alimentarmente parlando siamo dei maleducati.

Dobbiamo (ri)scoprire e (ri)valorizzare la nostra cultura alimentare, la consapevolezza del rapporto cibo-salute, cibo-ambiente, cibo-relazione. Adottare comportamenti alimentari sani, lavorare sulla qualità degli alimenti, far conoscere il funzionamento del sistema agroalimentare, promuovere forme di prevenzione contro lo spreco di cibo. Sono, questi, soltanto alcuni disordinati paragrafi di un più vasto libro di educazione alimentare (poi ambientale e civica). Per scriverlo e poi insegnarlo a scuola, “non è mai troppo tardi”.

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