Emanuel Carnevali, un poeta all’inferno

Tra le folle di migranti che agli inizi del secolo scorso sbarcarono a Ellis Island, si nascondeva un grande poeta proveniente dall’Emilia.

Emanuel Carnevali lascia Bologna e sbarca a New York il 5 aprile 1914 per sfuggire a un padre autoritario che “nasconde un cuore nero”. Cacciato dal collegio in cui studiava a Venezia e rimproverato dal genitore per le assenze dalla scuola di Bologna, “Manolo” arriva in America a soli 16 anni, come Rimbaud all’epoca delle prime fughe a Parigi. A New York il ragazzo di Bologna non conosce nessuno, se non il fratello che lo raggiunge due settimane dopo e con il quale litiga subito. Comincia un’esistenza di lavori saltuari e camere ammobiliate: fa il cameriere, il lavapiatti, il garzone di drogheria, lo spalatore di neve, e impara l’inglese in strada decifrando le insegne pubblicitarie. Nel 1917 legge avidamente i poeti francesi e scrive il suo primo verso in inglese: Love is a mine hidden in the mountain of our old age. Manda le sue prime poesie alle riviste, regolarmente rifiutate, e cambia lavoro in continuazione vivendo di espedienti. Fa amicizia con un francese, aspirante scrittore, Louis Grudin, che lo introduce alla letteratura americana e con il quale visita alcuni importanti scrittori americani come Max Eastman e Louis Untermeyer. A settembre The Seven Arts gli pubblica un paio di poesie.

Il mese dopo Carnevali conosce una sua vicina di camera, una piccola piemontese emigrata, e la sposa. Per la prima volta ha una casa, anche se nel malfamato East Side. Nel marzo 1918 la prestigiosa rivista Poetry diretta da Harriet Monroe lo premia per una serie di poesie, grazie alle quali entra in contatto con i grandi intellettuali del tempo: William Ca

rlos Williams, che gli dedica l’intero ultimo numero della rivista Others (luglio 1919), Ezra Pound, Edgar Lee Masters, Carl Sandburg, Sherwood Anderson.
Carnevali traduce in inglese Croce, Papini e i nuovi poeti italiani, pubblica un saggio su Rimbaud, collabora a riviste, ma rimane uno sradicato, un nomade braccato dalla vita, un poeta maledetto. Febbrile, selvatico, con una certa affinità di stile ed esistenziale con Dino Campana, tradisce la moglie con avventure occasionali, la abbandona a New York – e non la rivedrà mai più – per trasferirsi a Chicago, chiamato da Harriet Monroe come vicedirettore di Poetry. Fa q

ualche lavoretto per campare, senza mai riuscire a liberarsi della sua congenita instabilità. Si innamora di una ragazza ebrea, e quando questa nel febbraio 1920 lo lascia per trasferirsi a New York, anche lui abbandona il poco che aveva conquistato, come l’incarico alla rivista, e vaga di notte per le strade di Chicago facendosi mantenere dalle prostitute.

Cominciano le prime crisi di nervi. Ricoverato per sospetta sifilide nel reparto psicopatici del St. Luke’s Hospital, grazie all’aiuto di un gruppo di amici viene trasferito in una clinica privata. Dimesso, gli trovano un posto di giardiniere al Lincoln Park, che deve abbandonare per la sua debolezza. Chiede allora di essere mandato alle dune dell’Indiana: lì – scrive - “la solitudine era tutto ciò che possedevo”. Passata l’estate del 1920, torna a Chicago dove vive chiedendo l’elemosina. A Milwaukee, invitato per una lettura delle sue poesie, si ferma e va a dormire all’ospedale. Ricacciato a Chicago dalle autorità, trova altri effimeri lavori. Scrive a Williams: “Caro Bill, ora sono una miseria ambulante”. Nel giugno 1921 riparte per le dune del lago Michigan, dove si costruisce una capanna e vive quasi da selvaggio. Poi fa di nuovo rotta a Chicago, mendicante tra i mendicanti. Nel gennaio 1922 è ancora in ospedale: trema tutto, non riesce a fissare l’attenzione su niente. La diagnosi sarà terribile: encefalite letargica. L’ultimo suo lavoro è quello di trasportare sacchi di tappi di sughero da una parte all’altra di Chicago. Dopo, si abbandonerà completamente alla malattia.
A New York, Grudin lo aspetta al porto per salutarlo. Emanuel torna in Italia grazie al viaggio pagato dal padre: “piegato su se stesso, calmo, tremante, incapace di accendersi una sigaretta” – racconta l’amico. La sera dell’11 settembre 1922 è a Bologna. Il padre, commissario prefettizio a Bazzano, lo fa ricoverare all’ospedale di questa cittadina a 30 km da Bologna. Nel 1923 Em, come lo chiamavano in America, riceve in dono dai suoi amici d’Oltreoceano una macchina da scrivere, e l’anno seguente lo scrittore ed editore Robert McAlmon gli paga un anno di soggiorno a Villa Baruzziana a Bologna. Nel ’25 McAlmon, raccogliendo gli scritti di Carnevali sparsi per le riviste americane, pubblica A Hurried Man. Tra il ’26 e il ’36 Carnevali è sistemato in due pensioni di Bazzano (nel ’28 scrive A History, un diario bazzanese). Gli amici americani non lo dimenticano: in molti vengono a trovarlo a Bazzano, tra cui Ernest Walsh nel ’24, la Monroe nel ’29 e Pound, che nel ’36 gli porta in dono una radio. Ridotto in condizioni pietose da anni di malattia, Carnevali muore nella Clinica Neurologica di Bologna nel 1942, soffocato da un pezzo di pane. L’editore Adelphi nel 1978 fa uscire Il primo dio, che comprende l’omonimo romanzo autobiografico, una scelta di poesie, alcuni racconti, scritti critici e testimonianze. Quel che colpisce, è la ventata di novità, l’urgenza e la selvatichezza che Carnevali introduce nella poesia americana. Scrive in inglese, la lingua dell’esilio, spinto dall’entusiasmo barbarico di chi arriva dalla periferia. Lui, il “poeta delle camere ammobiliate”, è riconosciuto da Williams come “il poeta nero, l’uomo vuoto, la New York che non esiste”. Con la sua lingua raccolta per strada, costringe gli anziani poeti a liberarsi della tecnica, a uscire allo scoperto nella vita, come un topo che scivoli fuori dalle immondizie di New York. Disceso all’inferno, Em, il “miserabile ragazzo sperduto nel sudiciume” che ha scoperto la poesia nei retrocucina dei ristoranti (“Quante volte nelle strade di Manhattan / ho scagliato il mio odio!”), ne riemerge come lo sciamano che ha visto la morte e riconosciuto dio.
Se la malattia, il tremore incessante in tutto il corpo, non l’avesse messo fuori campo a soli 25 anni, costringendolo a giocare di rimessa con le parole e con le sue intemperanze, la Certosa di Bologna custodirebbe oggi i resti di uno dei più grandi scrittori del Novecento.