La mentalità degli assassini di Rathenau

Ernst von Salomon partecipò alla repressione dei moti di Berlino, combatté in Lettonia ed ebbe un ruolo importante persino nell’assassinio di Walther Rathenau, ministro degli esteri della nuova Repubblica tedesca. Salomon pubblicò I proscritti nel 1930. Si tratta del romanzo che più di ogni altro ha celebrato i Freikorps, trasformandoli in romantici cavalieri dell’ideale, disperati e maledetti, perché capaci di superare le logiche morali e politiche degli uomini comuni. Al di là delle somiglianze ideologiche, la differenza rispetto a Hitler non potrebbe essere maggiore. Prima e dopo la conquista del potere, infatti, il leader del partito nazista fu sempre disponibile a servirsi delle sottili armi della politica, a procedere in modo graduale, a combattere la sua battaglia non con spettacolari atti di terrorismo, ma per mezzo di un formidabile partito di massa.

In quei giorni, quando i combattimenti che si svolgevano in ogni campo dovevano essere sopportati anche da noi e nei nostri cuori con tutta la loro cieca asprezza e la loro fatalità, un’attività disinvolta poteva sgorgare solo dalle poche chiare e semplici certezze che la vita ci offriva. Poco esperti in quel genere di lotta, senza dubbio più comoda, che nelle colonne dei giornali era chiassosamente celebrata come la lotta delle armi spirituali, ci sforzavamo tuttavia, nelle poche ore di riflessione tra un’azione e l’altra, di pescare nel caos delle parole rottami di espressioni ancora adattabili ai nostri impulsi, preparando la futura azione, che mettevamo in armonia con il senso della nostra vita.

Sentivamo anche, con chiarezza, come la forza che ci spingeva non era in realtà la nostra stessa essenza, ma l’influsso di forze mistiche che l’intelletto puro, con tutti i suoi metodi, non arrivava a conoscere. Ognuna delle nostre azioni, anche se era il frutto non premeditato del momento, anche se aveva agli occhi dei perspicaci Realpolitiker [= i politici realisti, cinici e freddi, interessati ai risultati, più che agli ideali, e quindi disponibili ad ogni compromesso – n.d.r.] risultati pratici molto magri, serviva perlomeno a far progredire il nostro sviluppo, diffondeva perlomeno intorno a sé onde più larghe che non facessero le discussioni e gli ordinamenti importanti di questo o quel ministro, i discorsi e le decisioni infiammate dei parlamenti, le promesse e gli sforzi generosi dei partiti e delle società.

Ogni nostra impresa scuoteva un po’ più la compagine dei sistemi, attaccava certezze abbastanza faticosamente costruite, esigeva dall’ordine minacciato reazioni che costringevano inesorabilmente a nuove azioni. I nostri si sottoponevano coscienti allo sforzo, si abbandonavano senza riserve a ogni eccesso, sperimentavano su se stessi la verità della maledizione del male, condannato a partorire continuamente altro male, senza, naturalmente, credere che la maledizione o il male fossero cose da poco. Senonché, nell’atmosfera della felice esperienza di quest’equilibrio nasceva in noi la certezza impegnativa di essere i realizzatori di una volontà storica. Questa certezza, non togliendo nulla al rischio, non alleggerendoci da nessuna responsabilità, conferiva alla nostra attività il giusto aroma.

La volontà di creare, che non c’impediva di distruggere, che, esercitata in quel tempo, rendeva anzi possibile e necessaria la distruzione, ci permetteva, in esaltanti conversazioni notturne in cui si rivelavano, inebrianti, l’armonia dei nostri pensieri e delle nostre lingue, di trasportarci in spazi remoti, di indagare il senso della nostra missione, di cercare la direzione che già prendevano le forze germoglianti su ogni via. E il desiderio di chiarire l’immagine confusa dei nostri sogni non cercava una giustificazione, ma solo la sicurezza di non accettare la soluzione più facile nell’imminenza dei prossimi avvenimenti. [...]

La sera di quel giorno [Kern] venne da me. Sedemmo a lungo discorrendo nell’oscurità che ci premeva da ogni parte. Dissi a un tratto esitando, sentendo le mie parole gocciare incerte nel silenzio: <<Non ho mai avuto forte come in questi giorni la sensazione che tutti gli avvenimenti e tutti i movimenti si dirigano verso un solo punto. Forse sono contagiato anch’io dallo stato d’animo generale nato da mille speranze e desideri, ch’è diventato ora l’attesa tormentosa del grande cambiamento. Ma se veramente sta per giungere l’ora della grande decisione... noi che cosa faremo?>>. [...]

<<Non siamo chiamati a vedere realizzati gli ultimi sogni, né a raccogliere la messe. Ma c’importa del successo? No, c’importa l’adempimento. E’ vero, non abbiamo avuto successi; non ne avremo mai. Ci siamo messi in marcia e abbiamo ora sete di aria pura. Abbiamo fatto l’avanzata verso est e invece di arrivare a Varsavia, abbiamo fallito la nostra vittoria davanti a Riga. Abbiamo portato le nostre bandiere a Berlino e le abbiamo riportate indietro. Abbiamo spazzato l’Alta Slesia ripulendola come nessuno c’era mai riuscito e abbiamo dovuto lasciarla smembrare. Ci siamo esercitati nell’anarchia pura e non abbiamo fatto un passo avanti. Ci hanno accusato di difendere posizioni perdute, e siamo stati capaci di rispondere solo che non era un motivo sufficiente per noi, per abbandonarle. Che cosa, malgrado tutto questo, ci ha dato la fede, mi domandi? Soltanto la nostra azione [...] >>.

Chiesi a Kern: <<Tu, ufficiale dell’esercito imperiale, come hai potuto sopravvivere al nove novembre 1918?>>.

<<Non sono sopravvissuto>>, rispose Kern. <<Il nove novembre del 1918 mi sono sparato, come ordinava l’onore, una pallottola alla testa. Sono morto; quello che vive in me non sono io. Da quel giorno non conosco più un io. Non voglio esser da meno di quei due milioni di morti. Sono morto per la nazione, e dunque ogni cosa in me vive solo per la nazione. Non sopporterei che fosse diversamente. Faccio quello che devo. Poiché dovevo morire, muoio ogni giorno. Poiché tutto quel che faccio è dedicato a quell’unica forza, tutto quel che faccio viene da quella forza. Quella forza chiede distruzione e io distruggo. Finora ha chiesto solo distruzione. Chi viene a patti con la morte deve poter dire compare al diavolo. Se quella forza non mi tenesse più al suo servizio, so che cadrei, sarei distrutto. Non mi rimane che ciò che mi è imposto con la mia piena adesione. Non mi rimane che consacrarmi al mio bel destino implacabile>>.

(E. von Salomon, I proscritti, Milano, Baldini & Castoldi, 1994, pp. 258-269. Traduzione di M. Napolitano Martone)

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