Il collasso morale della Germania nel 1918
Levée en masse – chi ci suggerì queste parole? Sì, è così, proprio così! Avremmo dovuto sollevarci tutti contro il nemico. Dare un senso alla rivoluzione, lasciare che il paese arrivasse all’ebollizione, portare innanzi le bandiere rispettate, magari le rosse: questo dovevamo. Non avremmo dovuto imparare ad amare la rivoluzione? Kerenski non aveva forse dovuto imparare a combattere, Lenin non aveva forse dichiarato guerra a tutto il mondo? Tutti avremmo portato le armi con la passione della vittoria. La vittoria sarebbe stato uno scopo più alto che conservare la nostra condizione attuale; ci avrebbe dato l’onore di una missione, avrebbe tolto alla disperazione il suo riflesso corrotto e fatto zampillare l’odio nostro e la nostra fede da cespugli e da siepi, da ogni finestra e da ogni porta. Chi avrebbe potuto opporsi alla nostra rivolta? L’uomo che ci aveva suggerito le parole non aveva fama di un vuoto sognatore. Bisognava osare.
Volevo imparare ad amare la rivoluzione; forse le sue energie non si erano risvegliate ancora tutte. Forse i marinai attendevano la parola d’ordine; forse gli operai, i soldati erano già organizzati in battaglioni segreti, forse la lingua della rivolta era già sgorgata dalla gonfia fiamma di una mostruosa, insondabile, volontà rivoluzionaria opposta al mondo intero. Gli elementi più attivi della nazione avevano già le armi in mano.
Corsi allora attraverso la città, ma la città era tranquilla. M’insinuai nelle riunioni, ma oratori enfatici vi tuonavano contro Junkers, parroci e baroni da strapazzo e il maledetto regime Hohenzollern. Lessi con attenzione i proclami, ma vi si accennava a un commissario di smobilitazione, e a ordinamenti per l’applicazione dell’armistizio. Corsi per le strade, ma gli uomini andavano al lavoro; si fermavano appena davanti agl’insolenti avvisi rossi; aizzati dalla fame passavano stanchi in miseri abiti vecchi, interminabilmente pazienti e annoiati. Se per caso parlavano, le parole erano un sordo mormorio, e le donne stavano come sempre agli angoli in lunghe file aspettando umilmente. Mi precipitai al picchetto, ma gli agenti mi guardarono con diffidenza mormorando parole che conoscevo: logore, masticate, udite cento volte. Vidi masse compatte con bandiere spiegate e scudi scintillanti, ma dalla piazza si levò il grido: <<Non più guerra>> e <<Dateci pane>>, e quelli si fermarono discorrendo di sciopero generale e di elezioni di Consigli dei Mestieri. Mi rivolsi ai miei conoscenti, borghesi, ufficiali, impiegati, ma risposero che prima si doveva ristabilire l’ordine e allusero ai sistemi spicciativi con cui i reduci avrebbero presto fatto piazza pulita.
Ma i marinai, i marinai che avevano fatto la rivoluzione ed erano la coscienza dei primi giorni di rivolta, giravano arditi la città; erano il germe e i diffusori di ogni sommossa. [...] Mi feci umile, sopportai i sorrisi di scherno, gl’insulti, mi mescolai a loro, ostinato; offrii cattivo tabacco, intervenni nelle discussioni brutali, risi delle oscenità, ne dissi anch’io, m’indurii, mi feci coraggio, attaccai discorso con uno o due seduti in disparte, tirai fuori dei giornali. Uno, fra i più giovani, un piccolino con una faccia impunita, m’interrogò; gli mentii, insultai il Kaiser, mi lasciai raccontare incredibili prodezze: come avevano frustato gli ufficiali, di quante ragazze avevano approfittato; lo adulai sporcamente, finché, lusingato, non mi lasciò sfogare contro le guardie, contro quei cani vili che volevano tradire la rivoluzione per paura dei borghesi e dei francesi. Lo sapeva, gli chiesi, che i francesi sarebbero venuti; cosa contavano di fare, loro? I francesi volevano disarmare tutti; loro si sarebbero battuti, avrebbero combattuto contro i francesi?
<<Noi no; chi volete che si batta?>> mi rispose il marinaio, e sputò nell’angolo.
(E. von Salomon, I proscritti, Milano, Baldini & Castoldi, 1994, pp. 21-23. Traduzione di M. Napolitano Martone)

