In attesa dell'assalto

La guerra moderna è descritta da Ernst Jünger in tutta la sua violenza estrema. Tuttavia, mentre E. M. Remarque, nel suo Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928), avrebbe tratto da quella tragedia un messaggio morale di rifiuto della violenza, Jünger pose l’accento sul fatto che il conflitto aveva creato una stirpe di esseri nuovi, di individui eccezionali, temprati dalla prova della guerra, di cui avevano sperimentato fino in fondo la tempesta d'acciaio. Come scrive lo stesso Jünger, <<lo spirito della battaglia materiale e della lotta all'ultimo sangue, che viene combattuta senza speranza di ritirata, brutalmente, selvaggiamente, produceva come nessun altro uomini quali il mondo non ne aveva mai conosciuti. Si trattava di una razza del tutto nuova, incorporava energia, portava una grande violenza..., vincitori, nature d'acciaio, connaturati alla lotta nella sua forma più orrenda... Se li osservo... sono irraggiato dalla scoperta: questo è l'uomo nuovo... Saranno gli architetti del mondo su un fondamento di macerie>>.

Mi sedetti su una scala del rifugio, accanto ai miei due ufficiali. Attendemmo le cinque e cinque, l’ora stabilita, quando avrebbe dovuto incominciare la preparazione di artiglieria. Il morale era un po’ più sollevato; la pioggia era infatti cessata e la notte piena di stelle prometteva un mattino asciutto. Passammo il tempo a fumare e a chiacchierare. Mangiammo alle tre; la borraccia fece il solito giro da una mano all’altra. Alle prime luci dell’alba l’attività dell’artiglieria nemica prese un ritmo tale da farci temere che, continuando, gli inglesi sarebbero forse riusciti a sventare la nostra minaccia. Qualcuna delle tante pile di munizioni sparse sul campo saltò in aria.

Poco prima dell’ora X, fu diffuso questo radiogramma: <<S.M. l’Imperatore e Hindenburg sono presenti sul teatro delle operazioni!>>. Vivi applausi salutarono quell’annuncio.

La lancetta avanzava sempre più; contammo gli ultimi minuti. Infine furono le cinque e cinque. L’uragano scoppiò.

Una cortina fiammeggiante, seguita da un improvviso boato, si levò verso il cielo. Un fragore indescrivibile, che inghiottiva persino i colpi di partenza dei grossi calibri, fece tremare il suolo. Il mortale ruggito degli innumerevoli cannoni posti dietro di noi era così spaventoso che anche le più dure battaglie da noi combattute  ci sembravano, al confronto, giochi da bambini. Ciò che non avevamo osato sperare avvenne: l’artiglieria nemica tacque; era stata annientata da un solo gigantesco colpo. Non sopportavamo di restare più a lungo nella galleria, e in piedi sulle difese contemplammo il muro di fuoco alto come una torre, gravante sulle trincee inglesi e velato di nubi ondeggianti del colore del sangue.

Lo spettacolo fu disturbato da un bruciore agli occhi e alle mucose. I vapori dei nostri proiettili lanciagas, spinti dal vento contrario, ci avvolsero spandendo un fortissimo odore di mandorle amare. Notai con preoccupazione che molti dei miei uomini cominciavano a tossire, a dar segni di soffocamento. Finalmente decisero di adoperare la maschera. Cercai di reprimere i primi colpi di tosse e di trattenere le lacrime. A poco a poco, però, i vapori si dispersero e un’ora dopo potevamo toglierci la maschera.

Il giorno si era ormai levato. Dietro di noi il frastuono immane non faceva che crescere, benché la cosa sembrasse impossibile. Davanti a noi si alzava, impenetrabile allo sguardo, una muraglia di fumo, di polvere e di gas. Militari sconosciuti correvano lungo la trincea lanciando urli di gioia. Fanti e artiglieri, genieri e telefonisti, prussiani e bavaresi, ufficiali e soldati, tutti erano soggiogati dalla violenza di quell’uragano di fuoco e ardevano dal desiderio di buttarsi all’assalto previsto per le nove e quaranta. Alle otto e venticinque entrarono in azione i nostri lanciabombe pesanti: li avevamo vicinissimi, disposti a brevi intervalli, dietro la trincea di prima linea. Vedemmo le enormi bombe volare descrivendo lunghi archi nel cielo e cadere poi dall’altro lato provocando esplosioni paragonabili a boati vulcanici. Gli scoppi di quei proiettili si succedevano fittissimi, provocando sul terreno una catena di crateri in eruzione.

Le leggi stesse della natura sembravano non aver più valore. L’aria tremolava come nei giorni afosi dell’estate e la sua varia densità faceva ballare di qua e di là oggetti assolutamente immobili. Strisce di ombra nera filtravano attraverso le nuvole di fumo. Il fragore era divenuto assoluto: non lo si sentiva più. Si notava soltanto, confusamente, che migliaia di mitragliatrici dietro di noi lanciavano verso il cielo le loro raffiche di piombo. [...]

Guardai a destra e a sinistra. La linea di divisione di due popoli che si fronteggiavano offriva uno spettacolo singolare. Davanti alla trincea nemica, nelle buche che la tormenta di fuoco scavava sempre più, su un fronte che si allungava a perdita d’occhio, divisi in due compagnie, attendevamo i battaglioni d’assalto. Alla vista di quella massa di uomini, lo sfondamento mi sembrava cosa fatta. Ma avremmo trovato la forza di disperdere le riserve avversarie, di isolarle e annientarle? Io ne ero convinto. La battaglia finale, l’ultimo assalto sembravano ormai arrivati. Lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo. Soltanto per intuizione avevo coscienza della gravità di quell’ora e credo che ognuno, in quel momento, sentisse sparire dentro di sé qualunque sentimento personale, compresa la paura.

(E. Jünger, Tempeste d’acciaio, Pordedone, Studio Tesi, 1990, pp. 233-236. Traduzione di G. Jaager-Grassi)

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