I Freikorps nelle memorie di Rudolf Höss

A partire dal 1940, Rudolf Höss (1900-1947) fu il comandante del sistema concentrazionario di Auschwitz. Arrestato subito dopo la fine della guerra, scrisse le proprie memorie nel carcere di Cracovia tra il settembre 1946 e il gennaio 1947. La prima parte dell’autobiografia è dedicata alla decisiva esperienza della prima guerra mondiale e al servizio clandestino nei Freikorps (qui chiamati Corpi volontari), dapprima in Lettonia e poi in Germania. Al momento del suo arruolamento nell’esercito, Höss aveva appena 16 anni. Il conflitto mondiale e la violenza dell’immediato dopoguerra resero questo individuo sempre più impermeabile all’idea della violenza di massa, da lui considerata sgradevole, ma inevitabile e, in fondo, normale.

Partii per la Prussia orientale, per presentarmi ad un corpo di volontari per il Baltico. Così il problema della mia professione fu improvvisamente risolto, e nuovamente divenni soldato. Nuovamente ritrovai una patria, una sicurezza nella solidarietà dei camerati. E, cosa strana, proprio io, il solitario che aveva dovuto risolvere da solo tutti i problemi interiori e tutti i sentimenti, mi sentii sempre attratto dallo spirito di corpo, nel quale ciascuno poteva affidarsi ciecamente agli altri nel bisogno e nel pericolo. [...]

I Corpi volontari, tra gli anni 1918-1921, furono un fenomeno del tutto particolare del tempo. Ogni governo li utilizzava via via, ogni qualvolta la rivolta ardeva ai confini o all’interno del Reich e le forze di polizia, e in seguito l’esercito, non erano sufficienti a domarla, ovvero quando, per motivi politici, era opportuno non comparissero. Naturalmente il governo si affrettava a ripudiarli una volta eliminato il pericolo, o in seguito alle imperiose richieste della Francia. Allora li scioglieva e perseguitava le organizzazioni che si formavano con i loro resti e che erano in attesa di essere impiegate da qualche parte.

I membri di questi Corpi di volontari erano soldati e ufficiali che, ritornati dalla guerra mondiale, non riuscivano a reinserirsi nella vita borghese, avventurieri in cerca di fortuna, disoccupati che tentavano di sottrarsi all’ozio e alla beneficenza pubblica, e giovani, entusiasti volontari che accorrevano alle armi per amor di patria. Tutti, senza eccezione, erano legati da giuramento alla persona del comandante del Corpo. Il legame si reggeva su di lui e periva con lui. Nacque così un sentimento di solidarietà, uno spirito di corpo che nulla poteva infrangere. Quanto più duramente eravamo perseguitati dal governo in carica, tanto più ci tenevamo stretti gli uni agli altri: guai a colui che rompeva questo legame della comunità, a colui che tradiva!

Poiché il governo era costretto a negare l’esistenza dei Corpi di volontari, non poteva neppure perseguitare e punire i delitti che venivano commessi nelle loro file, sia furti di armi, sia rivelazione di segreti militari, sia alto tradimento, ecc. Nacque così nei Corpi volontari e nelle organizzazioni che ne derivarono, un’organizzazione autonoma della giustizia, ispirata agli antichi modelli tedeschi, il tribunale della Vema. Ogni tradimento veniva punito con la morte; così sono stati giustiziati molti traditori. Ma soltanto pochi di questi casi furono conosciuti, e rarissimamente gli esecutori poterono essere presi e giudicati dal Tribunale di Stato per la difesa della Repubblica appositamente creato [nel giugno 1922, dopo l’assassinio del ministro Walther Rathenau – n.d.r.]. Così avvenne appunto nel mio caso: il processo di Parchim per un delitto della Vema, nel quale venni condannato a dieci anni di penitenziario, come ispiratore e principale responsabile. [...]

In quel tempo ero fermamente persuaso – e lo sono ancor oggi – che quel traditore avesse meritato la morte. Perché, con ogni probabilità, nessun tribunale tedesco lo avrebbe condannato, noi lo giustiziammo secondo una legge non scritta creata da noi stessi, nata dalle necessità del tempo. Queste cose possono apparire comprensibili soltanto a chi abbia personalmente vissuto, o sappia immaginare se stesso vivere in un periodo così sconvolto e confuso.

(R. Höss, Comandante ad Auschwitz, Torino, Einaudi, 1985, pp. 20-23. Traduzione di G. Panzieri Saija)

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