I corpi franchi

I Freikorps
Berlino, gennaio 1919. Un reparto dei Corpi Franchi, che contribuirono alla repressione dell’insurrezione spartachista.Nel 1918, una volta tornata la pace, per moltissimi ex-combattenti fu difficile rientrare nella normale routine lavorativa. Nacque di qui la tendenza a cercare nuove avventure e nuove esperienze: si pensi, in Italia, all’occupazione della città di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari (1919-1920), oppure allo squadrismo fascista degli anni 1920-1922. Queste esperienze tipicamente italiane sono il segnale di un clima più generale, di una tendenza che si diffuse anche in vari altri stati.

In Germania, nelle loro memorie, molti ex-combattenti posero l’accento sul fatto che in trincea e sotto il fuoco, si creava una clima del tutto speciale, una comunità di camerati (Männerbund) del tutto diversa dall’anonima e individualistica vita borghese. In un gruppo di soldati al fronte, ognuno sapeva di poter contare sugli altri: solo un gruppo compatto poteva sopravvivere nelle condizioni estreme tipiche di una battaglia moderna. Finita la guerra, molti reduci idealizzarono il Männerbund e sognarono di trasferire questa comunità di trincea all’intera vita nazionale, che andava completamente rifondata su nuove basi, estirpando tutti i pericolosi agenti di divisione. Questi obiettivi sostennero l’attività dei cosiddetti Corpi Franchi (Freikorps), termine che in Germania designa quei reparti militari che, nel novembre 1918, si rifiutarono di gettare le armi e, a loro modo, continuarono a combattere contro i nemici della Germania. Ai gruppi strutturati di ex-combattenti, spesso si unirono anche numerosi giovani, soprattutto studenti, che non avevano potuto partecipare al conflitto mondiale per ragioni anagrafiche. Poiché era impossibile riprendere la guerra vera e propria contro i francesi e gli inglesi, l’azione dei Corpi Franchi si concentrò contro i comunisti e gli ebrei: a Berlino, a Monaco, in Slesia  e nei Paesi Baltici.

L’eredità della guerra

La prima guerra mondiale lasciò una terribile eredità di violenza. Per cinque anni, migliaia di individui erano stati a diretto contatto con il massacro di massa e si erano abituati ad esso. Questa assuefazione alla morte ebbe una grave conseguenza, che gli storici chiamano brutalizzazione della politica o militarizzazione della politica. Secondo questa nuova logica, l’avversario politico non era più un soggetto con cui discutere, ma un nemico interno, da eliminare con gli stessi sistemi utilizzati fino a poco tempo prima contro i nemici esterni. L’obiettivo dell’azione politica cessava di essere la vittoria elettorale o l’approvazione, per via pacifica e parlamentare, di leggi capaci di introdurre riforme sociali, più o meno radicali. Lo scopo ultimo dell’azione politica diventava l’eliminazione fisica del nemico, secondo una logica militare che non lasciava spazio a scrupoli morali.

La manifestazione più chiara di questa crescente brutalità introdotta nell’attività politica fu l’impressionante numero di omicidi politici che lo storico registra nel primo dopoguerra. Tra il 1° gennaio e il 7 aprile 1921, al massimo del proprio sviluppo, lo squadrismo fascista provocò in Italia 77 morti e 280 feriti. In Germania, tra il 1919 e il 1923, i gruppi di estrema destra attuarono 324 assassinii politici (contro i 22 commessi dall’estrema sinistra).

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