Le donne della Rosenstrasse

Dopo la guerra, l’episodio della Rosenstrasse venne praticamente dimenticato. In effetti, la vicenda risultava notevolmente imbarazzante e inquietante, perché metteva in discussione il mito universalmente diffuso della assoluta impossibilità, da parte della popolazione, di influire sul comportamento del governo e di limitare almeno in parte la dinamica della Shoah. In sintesi, il dubbio che non può essere messo a tacere (sulla base di queste esperienza) riguarda il fatto che i crimini nazisti poterono verificarsi in tutta la loro intensità solo quando e perché gli uomini e le donne del Terzo Reich accettarono di essere indifferenti o addirittura complici di quanto accadeva. Ursula Kretschmer (che aveva il proprio fidanzato all’interno dell’edificio) ha ricordato l’intera vicenda, svoltasi tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 1943.

Andai in Rosenstrasse e lì trovai altre donne. Era davvero come se fosse accaduto un miracolo. M’imbattei subito in una commessa che lavorava nel negozio di mio padre. Aveva un marito ebreo. Nessuno doveva scoprirlo, proprio come per mio padre, che aveva sposato un’ebrea; gestiva il negozio insieme a un nazista, il quale ovviamente non doveva venirlo a sapere. La paura era tale, che nessuno dei due conosceva la situazione dell’altro, e nessuno dei due doveva conoscerla. E invece ci ritroviamo lì in mezzo alla strada! [...] Non riesco più a ricordare se davvero sono andata in Rosenstrasse tutti i giorni. Ero in una situazione conflittuale, costretta a dissimulare sia la mia origine, sia il mio legame con lui. Credo di esserci andata ogni sera dopo il lavoro. Ma non ricordo più quante volte in tutto, anche davanti agli occhi serbo ancora immagini molto precise. In Rosenstrasse non abbiamo fatto proprio niente. Andavamo avanti e indietro. Si parlava. Ma io ero molto più giovane della maggior parte delle donne lì presenti. Avevo ventun anni. [...]

Abbiamo parlato. E non rimaneva altro da fare che camminare lì davanti. Certo, si teneva sempre d’occhio il portone per vedere se capitava qualcosa. Ma per il resto, non si poteva far altro che stare in piedi o camminare. E c’era gente a tutte le ore! Talora erano di più, talaltra di meno, ma era sempre un vistoso assembramento di persone. Era questa la cosa straordinaria. [...] Le mitragliatrici a cui alcuni fanno riferimento, io non le ho viste. So che vengono sempre citate nelle testimonianze orali e scritte, anche in quelle di alcune conoscenti che sono state lì. Io posso solo dire che non le ho viste. Ma io non stavo lì tutto il giorno. Ovviamente, è possibile... Ma quelle grida: << Ridateci i nostri mariti! >>, quelle c’erano. Posso confermarlo. [...]

Una cosa è certa: ci minacciarono... eccome! Durante le nostre veglie serali continuavano a passare e ci ordinavano: <<Disperdetevi! Andate sull’altro lato della strada! >>. Ma non gli davamo retta. Non ce ne importava niente, eravamo stufe.

(N. Schroeder, Le donne che sconfissero Hitler, Milano, Pratiche, 2001, pp. 73-84. Traduzione di P. Quadrelli)

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