L'uomo bianco e la femmina nera nella letteratura di ambientazione coloniale

Gino Mitrano Sani pubblicò Femina somala. Romanzo coloniale del Benadir nel 1933. Come si intuisce dal titolo, si tratta di un romanzo centrato sulla relazione creatasi tra un ufficiale italiano (Ettore Andriani) ed una madama nera (Elo), cioè una giovane donna indigena che il soldato teneva al suo fianco, per soddisfare le proprie esigenze sessuali. L’immagine che l’autore offre della ragazza è sfacciatamente razzista: l'indigena è presentata come affatto incapace di pensare e di usare la ragione, mentre le espressioni più frequenti usate per descriverla sono di natura animale (bestiola, cane fedele). Negli anni Venti e Trenta, la presenza di esplicite allusioni erotiche rese molto popolare (e trasgressiva) questa letteratura. Ma, dopo la svolta razzista del 1938, che vietò le relazioni fra italiani e indigene, essa scomparve di colpo dalle librerie.

Il capitano italiano nessuna tenerezza aveva per la femina sua, pure le sue parole volevano avere un senso tranquillizzante. Perché? Cosa era la ragazza se non un corpo preso lì, da una tribù della sua giurisdizione, per placare l'astinenza di quell'esilio volontario? Non erano egli il padrone ed ella la schiava ? [...] Le parole dell'ufficiale avevano quel senso perché nell'assenza di altre donne, quelle della famiglia e della Patria lontane, Elo rappresentava la scura vestale tra i Lari tropicali del forte sorto in quel lembo dell'Africa italiana. Per questo egli aveva sentito il bisogno di quetare l'adolescente [...]. L'anima occidentale di lui, usa a riversare la propria tenerezza in un essere femminile, inconsciamente agiva con la bontà innata della sua razza italiana. Nessun tenerume molle, nessun pervertimento psichico, ché Ettore Andriani era un forte e sapeva comandare a se stesso. [...]

Come una bestiola, accucciata in un angolo della camera che doveva divenire d'un altro [...] Elo, il viso nelle palme, faceva pensare a quei cani fedeli che muoiono sulla fossa del padrone. Ella non aveva un pensiero che connettesse con altri, ella non sentiva la logica dei ragionamenti ma sentiva che perdeva una gran cosa, sentiva che senza il suo uomo la sua vita rientrava nel vuoto, nel buio che prima non aveva conosciuto ché vivendo da bestiola non conosceva altro della vita che la monotonia di quel vuoto. [...] Andriani aveva tutto regolato per Elo [...] ora se ne andava senza scrupoli, senza rimorsi, con la coscienza di aver ben ricambiato l'alleviamento alla dura astinenza africana che Elo docilmente gli aveva procurato. Non poteva, però, scacciare il senso penoso pel distacco dalla fanciulla, e non se ne vergognava. Era quello il senso triste che si ha quando si lasciano cose con cui s'è vissuto, il senso triste che non è solo per le persone ma anche per i luoghi e le cose. Purtuttavia sentiva che quella sensazione angosciosa era un qualcosa di diverso ed a cagione della sua piccola nera. [...] Che cosa doveva fare? Si può lasciare il proprio cane fedele senza una carezza?

(R. Bonavita, "L'amore ai tempi del razzismo. Discriminazioni di razza e di genere nela narrativa fascista", in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945 , Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 491-495)

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