La difesa della razza
I razzisti più intransigenti
La difesa della razza ospitò contributi di vari intellettuali, non sempre concordi tra loro nel definire il concetto di razza. La linea prevalente, però, fu quella biologica, fissata da Landra nel Manifesto degli scienziati razzisti, che non a caso fu ripubblicato proprio sul primo numero della nuova rivista. Nei suoi primi anni di vita, il periodico ebbe una tiratura altissima, oscillante tra le 140 e le 150 000 copie mensili. Una simile diffusione fu certamente facilitata dall’intervento personale del ministro Giuseppe Bottai, che nella sua qualità di responsabile dell’Educazione nazionale obbligò tutte le biblioteche scolastiche ed universitarie ad abbonarsi. In seguito, a partire dalla seconda metà del 1940, la tiratura subì una drastica contrazione, scendendo a quota 9 000 copie mensili.
I bersagli privilegiati della Difesa della razza erano i neri e gli ebrei. Dei primi si metteva costantemente in risalto la barbarie e l’inferiorità, rispetto all’uomo bianco. Nel caso degli ebrei, l’immagine più ricorrente era quella del ragno, metafora che evocava lo sforzo tenace e paziente compiuto dagli israeliti, per arrivare al dominio del mondo.
I Protocolli in Italia
Nel nazionalsocialismo, l’antisemitismo è una componente originaria, centrale ed ineliminabile. Nel fascismo italiano degli inizi, invece, l’ostilità contro gli ebrei ebbe scarso peso e poco spazio, al punto che molti di essi poterono aderire con convinzione al partito di Mussolini (nel 1938, gli ebrei iscritti al PNF erano circa 6900). Di fronte al fascismo, gli ebrei non furono affatto uniti e compatti, ma si comportarono esattamente come tutti gli altri italiani: alcuni guardarono a Mussolini con simpatia (per ragioni economiche, sociali o politiche), altri (di orientamento socialista o liberale, ad esempio) si schierarono fin dall’inizio contro lo squadrismo e la dittatura.
Un segnale evidente della scarsa importanza che il fascismo delle origini attribuì all’antisemitismo fu il silenzio e il disinteresse con cui venne accolta nel 1921 la prima traduzione italiana (curata da Giovanni Preziosi) dei Protocolli dei savi anziani di Sion. Non a caso, invece, questo testo centrale in ogni concezione antisemita del Novecento venne ristampato con grande enfasi nel 1937. Seguirono a ruota altre tre edizioni, per cui il volume riuscì a vendere circa sessantamila copie. La quinta edizione (uscita nel 1938) era arricchita da una lunga introduzione di Julius Evola, che risolveva con un semplice artificio retorico la questione della falsità dei Protocolli (dimostrata dal Times, nel 1921 e ribadita da un solenne processo celebrato a Berna nel 1934-1935). <<Il problema della loro autenticità – scrisse Evola, ritenendo con ciò di chiudere la questione – è secondario e da sostituirsi con quello, ben più essenziale e serio, della loro veridicità >>.