Giudizio di Keynes su Clemenceau

Georges Benjamin Clemenceau, primo ministro francese, era determinato a imporre al nemico sconfitto una pace cartaginese: la Germania, nelle sue intenzioni, doveva essere pesantemente ridimensionata e posta in condizione di non nuocere più a tempo indeterminato. L’economista inglese John Maynard Keynes, che partecipò alla conferenza di pace come membro della delegazione britannica, si rese subito conto dei pericoli insiti nell’impostazione di Clemenceau. Il libro di Keynes Le conseguenze economiche della pace uscì nel 1920.

I suoi principi per la pace possono essere espressi con grande semplicità. Egli innanzi tutto credeva fermamente, in fatto di psicologia tedesca, che il tedesco non intende e non può intendere che l’intimidazione; esso è, nell’opinione di Clemenceau, senza generosità o rimorso nei negoziati; non vi è vantaggio che egli non cercherebbe di prendere su di voi, non limite a cui egli non si abbasserebbe per lucro; il tedesco per lui non ha onore, orgoglio o pietà. Perciò voi non dovete mai negoziare col tedesco o conciliarvi con lui; voi dovete imporvi a lui. A nessun altro patto egli vi rispetterà o potrete impedirgli di ingannarvi. [...]

Questi, tuttavia, sono concetti generali. Nel tracciare i particolari pratici della Pace che egli riteneva necessaria per la forza e la sicurezza della Francia, dobbiamo tornare indietro, alle cause storiche che operarono su di lui durante la sua vita passata. Prima della guerra franco-germanica [del 1870-1871 – n.d.r.], le popolazioni di Francia e di Germania erano approssimativamente uguali; ma il carbone, il ferro e la marina mercantile della Germania erano al loro primo stadio di sviluppo e la ricchezza della Francia era grandemente superiore. Anche dopo la perdita [da parte della Francia, a seguito della sconfitta del 1871 – n.d.r.] dell’Alsazia-Lorena, non vi era grande stacco fra le risorse reali dei due Paesi. Nel susseguente periodo la posizione reciproca si era però completamente cambiata. Verso il 1914 la popolazione della Germania era quasi del settanta per cento superiore a quella della Francia; la Germania era diventata una delle prime Nazioni industriali e commerciali del mondo; la perfezione della sua tecnica e i mezzi di produzione di ricchezza futura erano impareggiati. La Francia invece aveva una popolazione stazionaria o decrescente e, relativamente agli altri Paesi, aveva subìto un serio regresso in ricchezza e in mezzi atti a produrla. [...] Per quanto era possibile, quindi, la politica francese era di riportare l’orologio indietro e di disfare quello che dal 1870 il progresso della Germania aveva fatto. Mediante diminuzioni di territorio e con altre misure, la sua popolazione doveva essere ridotta; ma soprattutto il suo sistema economico da cui poteva dipendere la sua nuova forza: la vasta struttura edificata sul ferro, sul carbone e sui trasporti, doveva essere distrutta. Se la Francia avesse potuto prendere anche in parte quello che la Germania era costretta a perdere, la disparità di forze fra le due rivali per l’egemonia europea avrebbe potuto essere corretta per molte generazioni...

Questa è la politica di un vecchio, le cui più vivide impressioni e la cui fervida immaginazione sono del passato e non del futuro. Egli vede solo la Francia e la Germania, e non l’umanità e civiltà europea affaticantisi verso un nuovo ordine di cose. La guerra ha morso nella sua coscienza diversamente che non nella nostra, ed egli non si attende né spera che ci si trovi sulla soglia di una nuova epoca. [...] L’orologio non può essere rimesso indietro. Noi non possiamo rimettere l’Europa centrale nelle condizioni in cui era al 1870 senza provocare tale tensione nella sua struttura e senza aprire la via a tali forme umane e spirituali che, premendo oltre le frontiere e le distinzioni di razza, sopraffarebbero irresistibilmente non solo noi e le nostre garanzie, ma le nostre istituzioni e l’ordine attuale della nostra Società.

(A.Gibelli, La prima guerra mondiale, Torino, Loescher, 1987, pp. 224-226)

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