La vittoria di Stalin

Le delusioni del dopoguerra
Siberia, Kolyma, 1943. Detenuti al lavoro in una miniera di oroNel 1945, al momento della vittoria della guerra contro la Germania nazista, Stalin raggiunse il culmine del proprio prestigio e della propria forza. Da più parti, però, all’interno della società sovietica sorgevano richieste di maggiore libertà e soprattutto di un mutamento della politica economica del regime, che da molti anni privilegiava la produzione di acciaio o di armamenti, a scapito dei beni di consumo. Questa svolta non ci fu: nel 1946, ad esempio, l’URSS produsse meno di un paio di scarpe e meno di un metro di stoffa all’anno, per ciascuno dei suoi cittadini. Inoltre, nell’inverno di rabbia 1946-1947, l’ennesima carestia provocò 2 milioni di morti per fame (500.000 nella sola Repubblica russa) e gravi difficoltà alimentari per almeno 100 milioni di individui.

La polizia segreta sovietica si rese conto che una simile situazione era esplosiva. Pertanto, gli ultimi anni Quaranta furono caratterizzati da un’altra imponente ondata di arresti e di deportazioni. Migliaia di persone (36.670 solo nell’autunno 1946) furono condannate a 5-8 anni per furto di pane o di farina.

Tra il 1945 e la morte di Stalin (1953) la popolazione dei lager sovietici crebbe in continuazione: da 1 460.000 nel 1945, i detenuti salirono a 2.200.000 circa nel 1948, a 2 468 000 nel 1953. Questa crescita vertiginosa si spiega tenendo conto delle diverse categorie di internati, tra i quali dobbiamo ricordare 272.867 soldati dell’Armata Rossa che erano stati catturati dai tedeschi e che vennero accusati di essersi arresi senza opporre resistenza al nemico. Tra questi militari, poi, un posto speciale occuparono i 56.746vlasovity: soldati che avevano accettato di vestire la divisa tedesca e di combattere (sotto il comando del generale A. A. Vlasov) contro l’esercito sovietico.

 

I malavitosi

Uno dei fenomeni più gravi sottolineati dai sopravvissuti all’interno dei lager sovietici è il peso crescente che assunsero col passar del tempo i criminali comuni. Molto spesso, infatti, si trattava di delinquenti di professione, spietati e violenti, che all’interno del sistema riuscivano ad imporsi proprio in virtù della loro crudeltà, che esercitavano verso i detenuti più deboli e soprattutto (con la complicità delle autorità) verso i prigionieri politici, condannati in base all’art. 58 del Codice penale. Per principio, i malavitosi non lavoravano: mentre quelli passavano tutta la giornata a giocare a carte, gli altri detenuti della squadra, cui essi erano assegnati, erano costretti a svolgere anche la loro percentuale di lavoro.

In un primo tempo, i delinquenti non accettarono incarichi di responsabilità all’interno del campo, guardando all’autorità dello Stato come ad un nemico, con cui non bisognava collaborare. Tuttavia, durante la guerra, pur di uscire dal lager molti criminali accettarono di arruolarsi nell’esercito. Al loro ritorno in campo, dopo il 1945, questi malavitosi furono accusati dagli altri di tradimento e furono denominati sprezzantemente cagne (suki, un epiteto volgare simile a puttane).

A partire dal 1949, tra i due gruppi iniziò una lotta lunga e feroce; denominato di solito la guerra delle cagne, lo scontro venne ampiamente tollerato dalle autorità, che se ne servirono, spesso, per sbarazzarsi di alcuni criminali particolarmente pericolosi e potenti.

Approfondimenti

Azioni sul documento