Il primo impatto coi malavitosi

I delinquenti se la prendevano soprattutto con i prigionieri politici, con coloro che erano stati condannati in virtù dell’Art. 58 del Codice penale sovietico. Le autorità – sempre disposte a scendere a compromesso con il problematico mondo dei malavitosi – lasciava fare e, talvolta, persino delegava loro il compito di rendere particolarmente difficile la vita dei politici. La scena seguente è da collocare a Vladivostok, sul piroscafo che conduceva i detenuti alla Kolyma.

Ma doveva ancora accadere la cosa più terribile: il primo incontro con delinquenti vere e proprie. Con le donne della malavita, fra le quali avremmo vissuto alla Kolyma.

Eravamo convinte che nella nostra stiva non ci sarebbe più stato posto neppure per un gattino e invece vi sistemarono alcune centinaia di esseri umani, se così si possono definire quelle creature dell’inferno che all’improvviso irruppero attraverso il boccaporto. Non erano comuni malviventi, bensì il fior fiore del mondo della delinquenza: recidive, omicide, sadiche, maestre in perversioni sessuali. Ancor oggi sono fermamente convinta che quel tipo di donne va isolato non nelle prigioni e nei lager, ma negli ospedali psichiatrici. Quando irruppe nella stiva quel miscuglio di corpi seminudi, tatuati e di musi scomposti in smorfie scimmiesche pensai che avessero deciso di farci sterminare da una folla di pazze furiose.

L’afa intensa fu come scossa dagli strilli, dalle combinazioni fantastiche di parolacce, dal ghignare selvaggio e dal canto. Quelle donne cantavano e danzavano sempre, battendo il tip-tap perfino là dove non c’era spazio neppure per porre i piedi. Esse cominciarono immediatamente a terrorizzare le frauen [= signore, in tedesco – n.d.r.], le sovversive. Le entusiasmava l’idea che al mondo esistessero i nemici del popolo, gente ancor più odiata e reietta di loro.

Nel breve spazio di cinque minuti ci offrirono una dimostrazione delle leggi della giungla: si impossessarono del nostro pane, strapparono dai nostri fagotti gli ultimi stracci rimasti, ci cacciarono dai posti che occupavamo. Sopravvenne il panico. Delle nostre alcune presero a piangere, altre cercavano di calmare quelle delinquenti e in segno di rispetto davano loro delvoi, altre ancora chiamavano in aiuto gli uomini della scorta. Invano. Lungo tutto il tragitto della traduzione [= trasferimento -  n.d.r.] per mare non si fece vedere neppure un rappresentante del potere, ad eccezione del marinaio col pane: ce lo buttava come si getta il cibo nella gabbia alle bestie feroci.

Ci salvò Ania Atabaeva, segretaria del Comitato di zona del partito di Krasnodar, una trentacinquenne massiccia e abbronzata con una voce imperiosa da basso, e le grosse mani di ex scaricatrice. Prese slancio e colpì con forza allo zigomo una di quelle donnacce. Questa cadde e nella stiva per un istante regnò un silenzio sbalordito. Ania ne approfittò per salire su una balla, e, sovrastando la folla, lanciò con voce tonante una tale serie di parolacce che le delinquenti comuni restarono allibite. Quelle sudicie creature erano altrettanto pusillanimi quanto vili.

La forza che emanava da tutte le personalità di Ania le ipnotizzò. Per di più la forma nella quale quella forza era espressa risultò la più adeguata al loro modo di intendere.

"Chi è quella?" si chiedevano l’un l’altra con timore e rispetto adocchiando l’originale frau. E qualcuna delle nostre diffuse la voce che Ania era la capogruppo.

Quelle capirono. La capogruppo. Essa può schiaffeggiarti e perfino metterti in gabbia.

"Restituire il pane e la roba!" ordinava Ania con voce terribile.

Le comuni restituirono. Naturalmente le bestemmie continuarono, così come gli strilli e le canzonacce volgari, ma l’aggressione attiva contro le politiche era cessata.

(E.S. Ginzburg, Viaggio nella vertigine, Milano, Mondadori, 1979, pp. 496-498. Traduzione di A. Betti)

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