L'arresto di Solzenicyn

Aleksandr Solgenicyn fu arrestato in Prussia Orientale, il 19 febbraio 1945, quando era ufficiale carrista dell’Armata Rossa. La ragione dell’arresto va cercata in alcuni giudizi politici critici, che aveva esposto in una lettera inviata ad un amico. Fu processato con l’accusa di "aver condotto fin dal 1940 propaganda antisovietica e di aver partecipato a un’organizzazione creata allo scopo di compiere atti antirivoluzionari". Condannato a otto anni di lavoro forzato (più tre di confino), lo scrittore fu deportato in Kazachstan, ove rimase in lager fino al 1953.

Il mio fu l’arresto più facile che si possa immaginare. Non mi strappò all’abbraccio dei miei, non mi tolse alla vita familiare a noi tanto cara. In un placido febbraio europeo, l’arresto mi tolse dalla stretta striscia in cui avevamo sfondato verso il Mar Baltico, dove non sapevamo se eravamo noi ad accerchiare i tedeschi o i tedeschi ad accerchiare noi, e mi privò solamente della mia divisione e dello spettacolo degli ultimi tre mesi di guerra.

Il comandante di brigata mi chiamò al quartier generale e mi chiese, non sapevo per quale ragione, la pistola. Gliela detti senza sospettare alcuna astuzia quando, improvvisamente, dal seguito di ufficiali che stavano in un angolo, tesi e immobili, uscirono correndo due membri del controspionaggio, traversarono la stanza in pochi balzi, afferrarono con quattro mani, in una volta sola, la stella del mio berretto, i miei galloni, il cinturone, il tascapane ed eclamarono con voce drammatica: "Lei è in arresto!".

Bruciato, trafitto dalla testa ai piedi, non trovai da dire nulla di più intelligente che: "Io? Perché?!".

Sebbene non esista risposta a questa domanda, e per quanto sorprendente possa parere, io la ebbi. Vale la pena menzionarlo, perché quadra ben poco con le nostre abitudini. Non appena gli uomini dello Smers [= gli agenti del controspionaggio – n.d.r.] ebbero finito di spennarmi ed ebbero confiscato con il mio tascapane le note contenenti le mie riflessioni politiche, si affrettarono a spingermi verso l’uscita, poiché le vibrazioni dei vetri causate dallo scoppio degli obici tedeschi li opprimevano. Fu allora che udii improvvisamente una voce ferma che m’interpellava, sì! Attraverso la sorda barriera che mi separava da coloro che rimanevano, trave caduta dalla pesante parola "arresto", attraverso questo recinto degli appestati per il quale nessun suono osa filtrare, passarono le parole favolose, incredibili del comandante di brigata:

"Solzenicyn; torni."

Con uno strattone mi liberai dalle mani degli uomini dello Smers e feci un passo verso il comandante. Lo conoscevo poco, non aveva mai accondisceso a intrattenersi con me in una semplice conversazione. Per me, il suo viso esprimeva sempre l’ordine, il comando, la collera. Ma adesso era diventato pensieroso e si era schiarito: era la vergogna di aver partecipato suo malgrado a una brutta faccenda? O il desiderio di elevarsi sopra la misera sottomissione di tutta una vita? Dieci giorni prima, dalla sacca dove era rimasta la sua divisione di artiglieria, dodici pezzi pesanti, avevo riportato la mia batteria da ricognizione quasi intatta, e ora doveva rinnegarmi di fronte a un pezzo di carta rivestito di un timbro?

"Lei," chiese calcando le parole "lei ha un amico sul primo fronte dell’Ucraina?".

"No; non ha il diritto!" gli gridarono il capitano e il comandante del controspionaggio, a lui che aveva il grado di colonnello. Il seguito degli ufficiali di stato maggiore si serrarono impauriti nel cantuccio, come se temessero di condividere l’imprudenza inaudita del comandante di brigata (e come se gli ufficiali della sezione politica si preparassero fin d’ora a DEPORRE contro di lui). Ma questo mi bastò, avevo già capito che la ragione del mio arresto era la mia corrispondenza con un compagno di scuola, sapevo oramai su quale linea aspettare il pericolo.

Zachar Georgievic Travkin avrebbe potuto limitarsi a questo. Invece no! Continuando a purificarsi e raddrizzarsi davanti a se stesso, egli si alzò da dietro la scrivania (nella mia vita precedente mai si era alzato per venirmi incontro!) e al di sopra del recinto degli appestati mi tese la mano (mai lo aveva fatto quando ero libero!); poi, suscitando il muto terrore del seguito, strinse la mia e, mentre la cordialità distendeva il suo viso sempre severo, mi disse senza il minimo timore e scandendo ogni parola:

"Buona fortuna, capitano!".

Non solamente io non ero più capitano, ma ero stato appena smascherato come nemico del popolo (infatti da noi ogni detenuto è smascherato fin dal momento dell’arresto, e pienamente). Dunque egli augurava la buona fortuna... a un nemico?

I vetri tremavano. Gli obici tedeschi squarciavano la terra a forse duecento metri di lì per ricordare come questo non sarebbe potuto succedere all’interno del nostro paese, sotto la campana di vetro di una esistenza stabile, ma solamente sotto l’alito della morte vicinissima e uguale per tutti.

(A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Milano, Mondadori, 1974, pp. 34-36. Traduzione di M. Olsùfieva)

 

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