La crisi del sistema
Resistenza nei lager
Proprio i campi con una maggiore presenza di stranieri (polacchi ed ucraini, soprattutto) videro la nascita, nei primi anni Cinquanta, di numerose e varie forme di resistenza, che andavano dalla tufta (l’imbroglio sul lavoro) su vasta scala, allo sciopero organizzato vero e proprio. La produttività del lavoro nei campi andò costantemente calando. In un primo tempo, i comandanti e le autorità periferiche cercarono di minimizzare il fenomeno, falsificando le cifre. Infine, però, ci si rese conto anche ai massimi livelli che il sistema del lavoro forzato non era più redditizio.
L’episodio di resistenza più significativo avvenne a Vorkuta, ove uno sciopero fu represso nel sangue (circa 70 morti) il 1° agosto 1953. A quell’epoca, Stalin era già morto (5 marzo) e un’amnistia promulgata il 27 marzo aveva già messo in libertà circa 1 200.000 detenuti. Di lì a poco, l’intero sistema sarebbe stato smantellato.
Il complotto dei medici
Nei suoi ultimi anni di vita, Stalin assunse un atteggiamento antisemita sempre più netto e marcato. Tra il 9 e l’11 dicembre 1952, undici medici dell’ospedale del Cremlino vennero arrestati, dopo essere stati accusati di aver prescritto terapie errate ad alcuni alti esponenti del partito e del governo sovietico, con l’intenzione di ucciderli. Una ben orchestrata campagna di stampa assunse subito toni e tinte apertamente ostili verso gli israeliti. L’articolo più celebre, pubblicato sulla Pravda il 13 gennaio 1953, era intitolato Assassini in camice bianco; lo stesso giorno, venne incendiato il Teatro ebraico di Mosca. Negli ambienti ebraici di tutta l’Unione Sovietica si diffuse il terrore: si profilava seriamente la possibilità di una deportazione di massa, verso Oriente, di tutti i 2 milioni di israeliti presenti ancora nel Paese dopo la vittoria sull’invasore nazista.
L’intero progetto venne bloccato dall’improvvisa morte di Stalin, verificatasi il 5 marzo 1953. Infine, il 3 aprile 1953, il complotto dei camici bianchi venne ufficialmente smentito dai nuovi dirigenti sovietici, i quali affermarono che i medici coinvolti nella vicenda erano stati arrestati illegalmente e ingiustamente accusati di sabotaggio e attività terroristiche nei confronti del governo sovietico.