La tufta
La prima volta che vidi del sangue, dopo aver dato un morso alla pajka [= la razione di pane – n.d.r.], pensai che fosse accidentale e non vi feci attenzione. Ma, quando lo rividi un’altra volta e un’altra ancora, capii che mi ero ammalato di scorbuto. Inoltre, durante la giornata, cominciavo a sentire fame prima. La razione di prima categoria non bastava più a sostentarmi per l’intera giornata di lavoro e cominciai a non coprire più la norma. Gromov, tuttavia, falsificò i rapporti. Scavavamo terreno, ma scriveva che stavamo estraendo grandi massi, il che abbassava la quota prevista; quando Jurij e io riuscivamo a sterrare anche solo la metà del suolo prescritto, Gromov scriveva sulla tabella che avevamo raggiunto la norma piena.
Con ciò, non faceva niente di straordinario. Se un brigadiere aveva cura dei suoi uomini e voleva assicurarsi che ricevessero la razione completa, falsificava i rapporti. Questa manovra, presentare, cioè, falsi rapporti gonfiando i dati, era chiamata tufta e chi la praticava tuftac. La tufta era pratica di ogni giorno, poiché non tutti riuscivano a realizzare la norma; se un brigadiere non riusciva a ottenere che i suoi uomini raggiungessero la quota poteva avere seri problemi. Nessuno metteva in discussione i rapporti falsi, perché tutto il sistema funzionava attraverso la corruzione e la collusione. Ciascun superiore si aspettava in qualche modo che la persona sotto di lui pagasse per non essere controllata e la forma di pagamento dipendeva da ciò che poteva essere scambiato. Le discrepanze, tra i volumi di materiale descritti nei rapporti e i volumi di materiale effettivamente inviati, potevano essere imputate a un trasporto aereo insufficiente e a difficoltà di consegna dovute al cattivo tempo. Dai campi di lavoro in miniera e dai centri di lavorazione, attraverso le scrivanie degli amministratori regionali, e via via fino alla direzione generale del Dal’stroj, la tufta era diffusa nell’intero sistema burocratico come un virus. Mosca pretendeva delle cifre e quelle cifre Mosca riceveva, vere o immaginarie che fossero.
(J. Bardach – K. Gleesen, L’uomo del gulag, Milano, Il Saggiatore, 2001, p. 261. Traduzione di G. Bernardi)