La spietata logica di Kolyma

Composti tra il 1953 e il 1973, i Racconti della Kolyma di Varlam Salamov sono considerati universalmente una delle testimonianze letterarie più intense relative al mondo concentrazionario sovietico. Il testo seguente permette di comprendere una delle ragioni che portarono al collasso del sistema. Oltre una certa soglia, neppure la minaccia della morte riusciva a ottenere un vero lavoro produttivo da detenuti sempre più esausti e (soprattutto negli anni seguenti il 1941) sempre più affamati.

Nessun legame d’amicizia può nascere con la fame, il freddo e l’insonnia e, malgrado la giovane età, Dugaev comprendeva perfettamente quanto fosse falso il proverbio secondo il quale la vera amicizia si riconosce nella disgrazia e nel bisogno. Perché ciò accada, perché l’amicizia si dimostri tale, bisogna che il suo saldo fondamento sia stato posto prima che la situazione, le condizioni di vita, siano arrivate a quel limite estremo al di là del quale nell’uomo non resta più niente di umano e c’è solo diffidenza, rabbia e menzogna. Dugaev ricordava bene il detto del Nord, i tre comandamenti del detenuto: non fidarsi di nessuno, non temere nessuno e non chiedere niente a nessuno...

Dugaev aspirò avidamente il fumo dolciastro della machorka [= sigaretta artigianale, fatta di solito con tabacco di risulta, ricavato dalle cicche delle sigarette vere e proprie – n.d.r.] e si sentì girare la testa.

"Divento sempre più debole", disse. [...]

Dugaev ritornò alla baracca, si coricò e chiuse gli occhi. Negli ultimi tempi faticava a dormire, glielo impediva la fame. I suoi sogni erano particolarmente tormentosi – grosse pagnotte e dense minestre fumanti... Anche quella sera Dugaev tardò ad assopirsi ma una mezz’ora prima della levata era già lì con gli occhi spalancati.

La squadra si avviò al lavoro. Giunti sul posto, tutti si dispersero tra i vari scavi.

"Tu aspetta, - disse il caposquadra a Dugaev. – Oggi il lavoro te lo assegna il sorvegliante".

Dugaev si sedette per terra. Era già a tal punto estenuato che qualsiasi cambiamento nella sua sorte lo lasciava del tutto indifferente. Sferragliarono le prime carriole sulle passerelle, le pale stridettero contro la roccia.

"Vieni qui, - disse il sorvegliante a Dugaev. – Ecco il tuo posto". Misurò la cubatura da scavare e ci mise per segno una scheggia di quarzo. "Fin qui, - disse – L’addetto ti sistemerà un’asse fino alla passerella principale. Scarica dove scaricano gli altri. Eccoti la pala, il piccone, la leva e la carriola. Datti da fare".

Dudaev si mise decisamente al lavoro. "Tanto meglio", pensava. In questo modo nessuno dei compagni di squadra avrebbe brontolato perché lavorava male. Loro erano contadini da sempre e non erano tenuti a rendersi conto che Dugaev era un novellino, che subito dopo la scuola era andato all’università passando direttamente dai banchi universitari a quel fronte di cava. Ognuno per sé. Non erano tenuti a capire che lui già da molto tempo era esausto e affamato, e che non era capace di rubare: il saper rubare, in tutte le sue forme – era questa la più importante virtù del Nord, a cominciare dal pane del vicino fino alle migliaia di rubli di premio ai capintesta per risultati mai raggiunti e inesistenti.

Non importava a nessuno che Dugaev non fosse in grado di sopportare una giornata lavorativa di sedici ore.

Spingere la carriola, vuotarla, picconare, spingere di nuovo, scaricare di nuovo, picconare, picconare ancora e ancora.

Dopo la pausa per il pasto, il sorvegliante venne a dare un’occhiata al lavoro fatto da Dugaev e se ne andò senza dir niente... Dugaev riprese a picconare, a caricare e spingere... Era ancora molto lontano dalla scheggia di quarzo.

Il sorvegliante ritornò la sera. Srotolò il metro a nastro e misurò il lavoro di Dugaev.

"Venticinque per cento, - disse e guardò Dugaev. – Venticinque per cento. Mi hai sentito?".

"Ho sentito", rispose Dugaev. Quella cifra l’aveva lasciato di stucco. Il lavoro era così faticoso, la pala raccoglieva così poco materiale, ed era così difficile alzare il piccone. Il venticinque per cento della norma, ovvero della quota giornaliera di lavoro, gli sembrava molto elevata. Aveva i muscoli intorpiditi, braccia spalle e testa gli dolevano terribilmente per lo sforzo alla carriola. Da lungo tempo non sentiva più la fame. Mangiava solo perché vedeva gli altri mangiare, qualcosa di indefinito glielo suggeriva: "Bisogna mangiare", ma lo faceva controvoglia.

La sera, Dugaev fu chiamato a presentarsi davanti all’inquirente. Rispose a quattro domande: nome, cognome, articolo del codice, durata della pena. Quattro domande che vengono poste al prigioniero almeno trenta volte al giorno. Poi Dugaev andò a dormire. Il giorno dopo tornò a lavorare con la squadra, sempre in coppia con Baranov, e la notte successiva vennero a prenderlo di nuovo i soldati e lo fecero passare dietro le stalle dei cavalli: lo condussero nella foresta per uno stretto sentiero, fino a un’alta palizzata, sormontata da filo di ferro spinato, che sbarrava quasi completamente l’imboccatura di una piccola gola, dalla quale nel silenzio della notte i dormienti sentivano talvolta provenire un lontano rombo di trattori. E quando capì di cosa si trattava, Dugaev rimpianse di aver lavorato, di aver tanto patito per niente anche quel giorno, quel suo ultimo giorno.

[1955]

(V. Salamov, I racconti di Kolyma , Torino, Einaudi, 1999, pp. 21-25. Traduzione di S. Rapetti)

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