Antisemintismo nei lager

Nel 1952, Olga Adamova-Sliozberg (arrestata nel lontano 1936) si trovava in qualità di deportata nel lager di Karaganda, nel Kazakhstan siberiano. Nelle sue memorie, ricorda con terrore e angoscia il momento in cui persino nei campi si diffuse il nuovo clima di antisemitismo, rilanciato in grande stile dal regime negli ultimi anni di vita di Stalin.

 

Nel 1952 cominciarono a circolare delle voci sull’arresto dei medici. La segretaria della direzione del nostro laboratorio, Natasa Vakula raccontava di aver visto con i propri occhi alla posta aprire un pacco proveniente dall’America, indirizzato a un certo Rabinovic. Il pacco conteneva ovatta sulla quale si muovevano migliaia di pidocchi tifoidi.

A una riunione di gruppo prese la parola una lavorante, una sarta, che disse di ricordare ancora di quando era bambina e gli ebrei uccidevano i bambini cristiani per prendere loro il sangue da impastare nel pane azzimo. Le sue parole furono accolte da un silenzio pieno di imbarazzo, ma qualcuno disse: "Beh, non è stato ancora dimostrato. Bisogna riparlarne". Con questo l’incidente fu chiuso.

L’atmosfera generale era di quelle che anticipano un pogrom.

In quel periodo ero caposquadra nel laboratorio di sartoria. Avevo anche il compito di fare i conti con le paghe, e per questo mi trattenevo in ufficio più a lungo degli altri. Nell’ufficio ero l’unica ebrea e per di più una deportata. Quando entravo in una stanza d’un tratto tutti tacevano e appuntavano gli sguardi su di me, come se fossi un medico assassino e usassi il sangue dei bambini per il pane azzimo.

Una notte ebbi il piacere di ascoltare per radio l’articolo Assassini in camice bianco. Andai al mio lavoro come se andassi all’esecuzione. Mi sedetti al mio tavolo e cominciai a contare e a fare le operazioni sul pallottoliere quando, un po’ in ritardo, giunse Maria Nikiticna Puzinkova, la signora più importante del nostro gruppo, moglie di un funzionario regionale (da noi erano concentrati tutti i pezzi grossi di Karaganda).

Quel giorno Maria Nikiticna scintillava come un decino nuovo di zecca. "Che cosa tremenda, mio Dio – disse. – Che imperdonabile leggerezza. Come hanno potuto ammettere tanti ebrei al Cremlino, affidare loro la salute dei nostri capi. Sergej e io non abbiamo dormito per tutta la notte, quando abbiamo sentito l’articolo della Pravda dal titolo Assassini in camice bianco".

Maria Nikiticna uscì svelta dall’ufficio e un minuto dopo ritornò con il giornale in mano.

"Olga Lvovna – disse rivolta a me. – Lei legge così bene. Ci legga a voce alta questo articolo".

"Maria Nikiticna, se non sbaglio lei ha fatto la scuola media. Perché non lo legge lei? Io ho da fare" - risposi.

Vivevo in un’atmosfera di curiosità ostile e velenosa. La nostra direttrice, Anisja Vasilevna, era una persona buona. Da ragazzetta di campagna semianalfabeta, era andata poi a servizio, quindi era stata promossa capo operaia, era entrata nel partito e ora era una delle donne più in vista di Karaganda. Possedeva un istinto indagatore innato e, nonostante la sua adorazione per Stalin, al quale, secondo lei, doveva la sua fortunata carriera, voleva anche capire che razza di gente fossimo noi deportati. Le piaceva chiacchierare con me, ma misurava ogni parola. Un giorno io le dissi che Marx era ebreo. Un po’ di tempo dopo uscì sulla Pravda un lungo articolo in occasione di qualche anniversario di Marx dove era scritto che Marx era tedesco. Anisja mi rimproverò: "Olga Lvovna, io le credo perché lei è una donna istruita, ma lei mi ha detto una bugia".

"Lei, Anisja Vasilevna, a chi crede di più, alla Pravda o a Lenin?".

"A Lenin, naturalmente".

Andai allo scaffale dove stavano i nostri libri sacri e le presi il volume di Lenin dov’era scritto che Marx era un "ebreo tedesco".

Un giorno mi chiese: "Mi faccia un po’ capire, che cosa mancava a questi ebrei? Stavano tanto male nel nostro paese? Perché volevano uccidere i nostri capi?".

Non trovai niente di meglio da risponderle che: "Probabilmente erano matti. Non vedo altra spiegazione". [...]

Il 4 aprile 1953 durante l’intervallo per il pranzo uscii a scaldarmi un po’ al sole, quando vidi Ida Markovna uscire di corsa dal laboratorio e correre verso di me con le lacrime agli occhi. Mi abbracciò e singhiozzando disse che avevano appena trasmesso per radio che il processo dei medici era stata tutta una montatura, messa su da Rjumin [viceministro per la Sicurezza statale, sarebbe stato fucilato nel 1954 – n.d.r.] e dai suoi compari. Si può immaginare la nostra gioia. Un giorno veramente bellissimo. Piangevamo, sognavamo che avrebbero cancellato le nostre incriminazioni e saremmo potute tornare dai nostri figli.

(O. Adamova - Sliozberg, Il mio cammino, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 205-209. Traduzione di F. Fici)

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