L'inganno delle terme di Terezìn

Nel suo resoconto, B. Murmelstein descrive con amarezza la disillusione e il dramma degli anziani ebrei tedeschi imbrogliati dai nazisti, che avevano promesso loro un tranquillo soggiorno presso le terme di Terezín. Essendo la componente più debole – e per di più stranieri (anzi tedeschi, né più né meno dei nazisti, agli occhi di alcuni ebrei cechi) – anche nel ghetto sovraffollato furono oggetto di svariate vessazioni e umiliazioni, secondo una dinamica che anticipa la totale assenza di solidarietà reciproca, denunciata da Primo Levi a proposito dei detenuti del lager di Auschwitz. Spaesati, sfiniti, nel corpo e nell’animo, la maggior parte di quegli anziani morì nel ghetto o fu deportata.

Entro poche settimane le persone anziane arrivate nel ghetto erano quarantamila. Cercando una soluzione, l’amministrazione scoprì le grandi soffitte sotto i tetti infocati delle caserme. Una volta adagiati su pavimenti di mattoni, i vecchi non si alzavano più. Per trovare un rubinetto, un lavandino o una latrina, bisognava scendere e risalire un’interminabile fila di gradini, impresa impossibile. Nessuno dei vecchi era in grado di sorvegliare le proprie cose, di difendere il suo diritto alla razione giornaliera, e non poteva mancare chi se ne approfittasse. Nell’ambiente arroventato dal solleone, invaso da pidocchi e saturo di un fetore soffocante, giacevano nella polvere e nelle proprie feci, professori universitari, invalidi, decorati di guerra, noti industriali e molti altri che avevano portato con sé attestati di avere fondato scuole, mantenuto ospedali, elargito borse di studio e ricoperto cariche d’onore in una società disposta ancora a subire l’invadenza giudaica. Adesso le valige erano sparite, e gli attestati non servivano più, la società era cambiata.

Qualcuno dei pochi fortunati che avevano trovato posto in una delle case sgombre tentava di esplorare la città, usciva e non faceva più ritorno. Confusi e attoniti, i vecchi vagavano per le strade, stentavano a riconoscere il portone della casa dove avevano dormito, e non erano in grado di declinare le proprie generalità. Un servizio di orientamento, appositamente creato, aveva l’incarico di raccogliere questi ebrei erranti e di indagare sulla loro identità. […]

Insieme con i vecchi erano giunti a Terezín i pidocchi, le epidemie e un malessere morale. La gente del luogo [= gli ebrei cechi – n.d.r.] stentava ad accettare la comunanza del destino con i tedeschi. Ogni trasporto proveniente da Praga portava parenti e amici; dai treni arrivati adesso dalla Germania scendevano invece degli sconosciuti. La tentazione di vuotare un tascapane, di far sparire un pasto o la razione giornaliera era grande. Il vecchio proveniente dalla Germania non poteva difendersi: gli mancavano figli o altri congiunti giovani, in grado di prendere la sua parte, infine era uno straniero che sapeva esprimersi solo nella odiata lingua dei nazisti. Quindi nessuna meraviglia se le coscienze diventavano elastiche e se lo scatto, capace di fermare una mano sacrilega, non si verificava. Il comando aveva sequestrato, subito all’arrivo, la maggior parte del bagaglio dei vecchi; perciò poteva essere considerato fuori legge anche tutto ciò che qualcuno dei tedeschi era riuscito a trascinare con sé dalla stazione. […]

Le piccole scintille di antipatia stavano diventando fiamme di odio profondo. Le continue deportazioni avevano ormai chiarito a tutti il pensiero di Eichmann. Gli ebrei boemi, disponendo di materiale umano giovane e ricco di capacità tecniche, dovevano con il loro lavoro mettere in piedi il ghetto per essere deportati, a costruzione finita. Il riparo, che credevano fosse ideato per loro, era invece destinato ad ospitare gente di lingua tedesca. Essi dovevano sgombrare, lasciare i loro posti agli altri; gioventù nel fiore della vita doveva cedere a pidocchiosi vecchiacci. Nelle cucine giovani cuochi buttavano la minestra rimasta, mentre alla porta aspettavano gli intrusi, deliranti di fame. Lo spazio disponibile per una persona non arrivava a due metri quadrati. I morti nel settembre erano 3931.

Nella caserma Magdeburgo, Edelstein [= la massima autorità del ghetto, a guida del Consiglio ebraico con il titolo di Anzianon.d.r.] stava esaminando la situazione in una seduta consiliare. Gli ebrei di cittadinanza cecoslovacca avevano non solo il diritto ma anche il dovere di rimanere in patria. Lasciar correre, rimanere inerti, voleva dire assumersi una pesante responsabilità, significava dover rispondere a gravi accuse, dopo la fine della guerra, in una libera repubblica cecoslovacca. Per quanto riguarda il punto di vista puramente ebraico, i vecchi anche se lasciati a Terezín, non potevano sopravvivere, la gioventù invece, se salvata, era la premessa di una rinascita nazionale. Purtroppo gli ordini delle SS non si potevano discutere. Se loro avevano deciso di deportare mille ebrei, non c’era dubbio che a mille bisognava arrivare; ma l’età e il luogo di provenienza  sarebbero stati pure intoccabili? Così durante la compilazione degli elenchi di persone da deportare, poteva succedere che qualche vecchio si trovasse con dieci anni in meno sulle spalle e venisse incluso in un trasporto di uomini sotto i 65 anni. Erano casi frequenti, ma il loro numero non poteva risolvere la questione. Edelstein e i suoi amici tornarono a ragionare ancora.

In una di queste riunioni, fu deciso di agire alla luce del sole. In uno degli appunti quotidiani, compilati per comunicare ai membri del Consiglio l’esito del rapporto mattutino al comandante Seidl, il decano del ghetto riferiva di aver fatto presente le crescenti difficoltà di mantenere in corso i lavori, mentre i vecchi aumentavano e il numero dei giovani diminuiva. DA tempo, era risaputo che Eichmann aveva assunto l’impegno verso i comuni confinanti di eliminare qualsiasi pericolo di epidemia nelle vicinanze di Terezín. Edelstein, accennando al pericolo che le epidemie non potessero più essere contenute, se la situazione non cambiava, sapeva benissimo di aver acceso una miccia a scoppio ritardato. […]

Così, una commissione venuta da Praga si fece presentare tutte le persone arrivate dalla Germania, dividendo i casi fra T (Terezín) e O (Oriente). Gli ultimi erano destinati al trasferimento in un altro ghetto. Mandati in un primo tempo a Terezín perché una loro deportazione immediata avrebbe sollevato l’indignazione della popolazione locale in Germania, potevano adesso essere trasferiti, perché nel ghetto la popolazione locale non contava.

Circa ventimila persone, venute dalla Germania e da Vienna, che avevano superato l’età di 65 anni ed erano in possesso di un contratto che assicurava loro il soggiorno a Terezín venivano segnate dal fatale marchio O e deportate in Polonia [a Treblinka e ad Auschwitz – n.d.r.], dal 10 settembre al 31 ottobre 1942. Nello stesso tempo, quasi ottomila ebrei morivano a Terezín in una età media di 74 anni. Insieme con questi ultimi è stato incenerito il progetto di un asilo per vecchi ebrei a Terezín-Terme.

(B. Murmelstein, Terezín. Il ghetto modello di Eichmann, Rocca San Casciano, Cappelli, 1961, pp. 29-32)

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