Il significato della conferenza di Wannsee, nella letteratura di Hanna Arendt

Nel 1961, Hanna Arendt seguì come corrispondente del giornale americano The New Yorker il processo subito da Adolf Eichmann a Gerusalemme. Nella sorpresa generale, l’imputato apparve come una figura meschina: un burocrate zelante, un semplice ingranaggio nella vasta macchina amministrativa dello Stato moderno. Lo sterminio degli ebrei non fu certo compiuto solo da soggetti di questo genere, mentre l’impulso ideologico (spesso sottovalutato dalla Arendt) giocò un ruolo di primo piano. Eppure, la conferenza di Wannsee si segnala proprio per la sua apparente normalità amministrativa, capace di addormentare le coscienze e di trasformare il crimine in routine ordinaria.

La riunione si era resa necessaria perché la soluzione finale, se doveva essere applicata in tutta l’Europa, richiedeva qualcosa di più che il tacito consenso dell’apparato statale: richiedeva la collaborazione attiva di tutti i ministeri e di tutti i servizi civili.

Quanto ai ministri, questi, nove anni dopo l’ascesa di Hitler al potere, erano tutti nazisti della prima ora; e infatti quelli che nel primo periodo del regime si erano limitati ad allinearsi erano stati poco per volta congedati. […] Il problema tuttavia era molto più acuto per quel che riguardava gli alti funzionari dei servizi civili, alle dirette dipendenze dei ministri, poiché questi uomini, che sono l’ossatura di ogni amministrazione governativa, non erano facilmente sostituibili: perciò Hitler in molti casi aveva dovuto chiudere un occhio, esattamente come avrebbe fatto più tardi Adenauer, a meno che non fossero irrimediabilmente compromessi. E’ per questo che sovente i sottosegretari e gli esperti dei vari ministeri non erano neppure membri del partito, e si comprende quindi come Heydrich non fosse affatto sicuro di accaparrarsi l’appoggio concreto di queste persone per il programma di sterminio. Come disse Eichmann, Heydrich <<si aspettava d’incontrare gravissime difficoltà>>. E invece, nulla di più infondato di questo timore. […]

La cosa più importante, come giustamente osservò Eichmann, era che i rappresentanti dei vari servizi civili non si limitavano a esprimere pareri, ma avanzavano proposte concrete. La seduta non durò più di un’ora, un’ora e mezzo, dopo di che ci fu un brindisi e tutti andarono a cena [forse, data l’ora – 13.30 circa – sarebbe più corretto dire pranzo – n.d.r.] - <<una festicciola in famiglia>> per favorire i necessari contatti personali. Per Eichmann, che non si era mai trovato in mezzo a tanti grandi personaggi, fu un avvenimento memorabile; egli era di gran lunga inferiore, sia come grado che come posizione sociale, a tutti i presenti. Aveva spedito gli inviti e aveva preparato alcune statistiche (piene di incredibili errori) per il discorso introduttivo di Heydrich – bisognava uccidere undici milioni di ebrei, che non era cosa da poco – e fu lui a stilare i verbali. In pratica funse da segretario, ed è per questo che, quando i grandi se ne furono andati, gli fu concesso di sedere accanto al caminetto in compagnia del suo capo Müller e di Heydrich, <<e fu la prima volta che vidi Heydrich fumare e bere>>. Non parlarono di affari, ma si godettero <<un po’ di riposo>> dopo tanto lavoro, soddisfattissimi e – soprattutto Heydrich – molto su di tono.

Ma anche per un’altra ragione quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su <<una soluzione così violenta e cruenta>>. Ora questi dubbi furono fugati. <<Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi più illustri, i papi del Terzo Reich>>. Ora egli vide con i propri occhi e udì con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la sfinge Müller, non soltanto le SS o il partito, ma i più qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di dirigere questa crudele operazione. <<In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa>>. Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di <<avere delle idee proprie>>? Orbene: egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia.

Così la sua attività prese un nuovo indirizzo, divenendo ben presto un lavoro spicciolo, di tutti i giorni. Se prima egli era stato un esperto in emigrazione forzata, ora diventò un esperto in evacuazione forzata.

(H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 120-122. Traduzione di P. Bernardini)

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