L'antisemitismo ucraino, in una testimonianza letteraria

A distanza di tempo, nel romanzo Vita e destino (completato nel 1960) Grossmann assunse un atteggiamento sempre più critico nei confronti del sistema sovietico. Si fecero ancora più forti, invece, l’ammirazione per l’eroismo dei semplici soldati (disposti a sacrificarsi per la libertà della Russia) e la compassione per gli ebrei sterminati (che il regime staliniano non riconosceva come bersaglio speciale e privilegiato della violenza nazista). In questa pagina, Grossman racconta la vicenda esemplare dell’ormai anziana dottoressa Sof’ja Osipovna, e di David, un bambino che è stato catturato senza i genitori e si è affezionato a Sof’ja. Insieme a mille altri, si spogliano e affrontano la morte nella camera a gas. Raccontarne l’esperienza fino all’ultimo respiro è un modo per dare volto e identità umana a soggetti che rischiano di diventare un’unica massa indistinta, un puro dato statistico.

Quando un uomo si spoglia completamente prende atto di sé. Dio benedetto, i peli del petto sono diventati ancora più fitti ed irti, e quanti ce ne sono di grigi. Che brutte unghie sporche. Un uomo nudo che si guardi non ricava altre conclusioni che una: sono io. Si riconosce, identifica il proprio io, che è sempre lo stesso. Il bambino che incrocia le braccia magre sul petto con le costole sporgenti e guarda il suo corpicino da ranocchio, pensa: sono io. E sempre lui, cinquant’anni dopo, osservando il groviglio di vene azzurre dei piedi, il petto grosso e floscio, si riconosce: sono io.

Ma Sof’ja Osipovna fu colpita da una strana sensazione. Nella nudità dei corpi giovani e vecchi, nel bambino magrolino con il nasetto pronunciato del quale una vecchia tentennando la testa aveva detto: <<Ohi, povero scricciolo>>, nella ragazzina di quattordici anni che anche qui centinaia di occhi guardavano con ammirazione, nella debolezza e infermità di vecchi e vecchie che suscitavano un rispetto religioso, nel vigore dei dorsi villosi degli uomini e nelle gambe varicose e nei grossi seni delle donne, il corpo di un popolo era uscito alla luce di sotto gli stracci. E a Sof’ja Osipovna era parso di averlo intuito, di essersi riferita con quella constatazione non solo a se stessa ma a tutto il suo popolo: sono io. Quello era il corpo nudo di un popolo, al contempo giovane, vecchio, vivo, in crescita, forte e malato.

Guardava le sue spalle forti e bianche che nessuno aveva mai baciato, solo la mamma un tempo, quando era piccola, e poi con un sentimento di tenerezza spostò lo sguardo sul bambino. […] E senza più vergognarsi di quel sentimento materno che era sorto in lei, vecchia ragazza, Sof’ja si chinò, prese nelle sue grandi mani di lavoratrice il visetto magro di David – ed era come se avesse preso in mano i suoi cari occhi tiepidi – e lo baciò.

<<Sì, sì, caro, ecco che siamo arrivati al bagno>>. […]

La corrente di gente sfociava nello stanzone e quelli che stavano entrando spingevano quelli si trovavano già dentro che a loro volta urtavano i loro vicini e da tutte queste piccole e innumerevoli spinte di gomito, di spalle, di pancia, si originava un moto che non si distingueva in niente da quello delle molecole scoperte dal botanico Brown.

A David sembrava di essere guidato, occorreva avanzare. Arrivò fino alla parete e urtò la sua fredda semplicità col ginocchio e poi col petto: non c’era altro spazio. Sof’ja Osipovna era ferma, schiacciata contro la parete.

Per qualche istante osservarono il formicolio di gente che confluiva dalla parte della porta. La porta era lontana e si riusciva a capire dove si trovasse solo per il biancore particolarmente fitto di corpi umani premuti, ammassati presso l’entrata, e poi già sparpagliati nello spazio della camera a gas. […] In fondo alla porta risuonavano urla: la gente che intravedeva la calca fitta che colmava la camera si rifiutava di entrare nelle porte spalancate.

David vide l’acciaio della porta che come attirato da un magnete, con un movimento lento e inarrestabile, andava a incastrarsi ermeticamente nello stipite, fino a formare un unico blocco.  Si accorse che nella parte alta di una parete, dietro una retina di metallo, aveva cominciato a muoversi qualcosa di vivo che gli sembrò un topo grigio, ma capì che era il moto di un ventilatore. Si percepì un debole odore dolciastro.

Lo scalpiccio dei passi si arrestò, ogni tanto arrivava il suono di parole confuse, di lamenti e grida. Non serviva più parlare, muoversi era senza senso: queste sono azioni protese verso il futuro, e nella camera a gas non c’era futuro.

(V. S. Grossman, Vita e destino , Milano, Jaka Book, 1998, pp. 543-549. Traduzione di C. Bongiorno)

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