La moglie di Franz Stangl, a Sobibor

Franz Stangl ebbe un importante ruolo nella creazione di Sobibor e poi fu comandante di Treblinka. Sua moglie ebbe il permesso di andare a trovarlo a Sobibor, ma restò profondamente turbata, allorché imparò che il marito lavorava in un centro di sterminio. La donna, tuttavia, accettò con estrema facilità la giustificazione del marito e lo assolse in fretta quando lui (mentendo) le disse che svolgeva solo un lavoro amministrativo. La donna non indagò, non mise il marito alle strette né lo obbligò a disobbedire o a chiedere un trasferimento: le bastò convincersi che il suo Franz si trovava ad una distanza di sicurezza, cioè non era un assassino nel senso più brutale e tradizionale del termine. La testimonianza fu rilasciata a Gitta Sereny, in Brasile, nel 1971.

<< Un giorno, mentre lui era in servizio – pensavo ancora che stesse costruendo, o lavorando in una base di rifornimento dell’esercito – arrivò Ludwig con diversi altri militari, a comprare del pesce o qualcosa del genere. Portarono dello Schnaps [ = grappa, acquavite – n.d.r.], e si misero a sedere in giardino a bere. Poi Ludwig venne da me – ero anch’io in giardino con le bambine – e si mise a raccontarmi di sua moglie e dei suoi bambini, continuò così per un pezzo. Io ero abbastanza stufa, soprattutto perché puzzava di alcol, e diventava sempre più lacrimoso. Ma pensavo, poveretto, è qui, così solo... devo almeno ascoltarlo. E poi, d’un tratto, disse: “Fuerchterlich -  spaventoso... è una cosa spaventosa, lei non ha idea di come sia spaventosa”. “Che cos’è, così spaventoso?” gli domandai. “Non lo sa? Non sa che cosa facciamo, là al campo?”.  “No,” dissi “che cosa?”. “Gli ebrei” rispose. “Gli ebrei. Li fanno fuori ”. “Li fanno fuori?” dissi. “Come sarebbe? Cosa intende dire?”. “Col gas” disse. “Un numero incredibile “  [unheimliche Mengen].

<< Proseguì, dicendo che cosa orribile fosse, e poi disse, sempre in tono lacrimoso: “Ma lo facciamo per il nostro Führer. Ci sacrifichiamo a far questo per lui... Obbediamo ai suoi ordini” . E poi disse anche: “Se l’immagina cosa succederebbe se gli ebrei un giorno prendessero noi ?”.

<< E allora gli dissi di andarsene. Non riuscivo neanche a pensare. Stavo già piangendo. Portai le bambine in casa. Rimasi lì, con lo sguardo fisso, a contemplare un abisso – ecco che cosa vedevo; mio marito, il mio uomo, il mio caro uomo, come poteva essere in una faccenda simile? Com’era possibile che lui vedesse fare queste cose? [...] I pensieri mi turbinavano nella testa; sentivo un gran bisogno di mettermi di fronte a lui, di parlargli, di sentire quello che lui aveva da dire, come poteva spiegare... >>

Aveva lasciato le bambine a giocare nella loro stanza; era uscita, e s’era incamminata lungo la strada che traversava la foresta, quella che, sapeva, lui avrebbe percorso, a cavallo, per tornare a casa. << Camminai per un pezzo, poi mi sedetti su un tronco ad aspettarlo. Quando lui arrivò a cavallo, e mi vide da lontano, gli si illuminò la faccia – lo vidi benissimo. Era sempre così – la sua faccia sempre dimostrava la sua gioia quando mi vedeva. Saltò giù dal cavallo e venne verso di me – penso per circondarmi con un braccio, ma d’un tratto si accorse che ero sconvolta. “Cos’è successo?” disse. “Le bambine?”.

<< Io dissi: “Ho saputo che cosa stai facendo a Sobibor. Mio Dio, com’è possibile! Che cosa fai, tu, in tutto questo? Qual è la tua parte?”. Prima di tutto mi domandò come l’avevo saputo, ma io mi misi a piangere; e poi lui disse: “Senti, piccola, calmati, ti prego. Mi devi credere, io non ho niente a che fare con tutto questo”. Io dissi: “Ma com’è possibile che sei lì e non hai nulla a che fare con questo?” . E lui rispose: “Il mio lavoro è puramente amministrativo; io sono lì per costruire... per sovrintendere alle costruzioni..., ecco tutto”.  “Vuoi dire che tu non vedi succedere quelle cose?” domandai. “Oh sì,” rispose lui “le vedo. Ma io non faccio niente a nessuno”. Naturalmente, non sapevo che lui era il Kommandant: questo non l’ho mai saputo. Lui mi disse che era la Höchste Charge [il grado più alto]. Mi domandai che cosa voleva dire, e lui disse di nuovo che era a capo della costruzione e che quel lavoro gli piaceva. Io pensai: “Mio Dio!”. [...]

<< Il giorno dopo [...] disse che stava per essere trasferito, a Treblinka – c’era un gran caos, là, disse;  ci fanno delle gran porcherie, e bisogna dargli una bella ripassata con una scopa di ferro. Io dissi: “Mio Dio, spero che non sia un posto uguale a questo”, e lui disse, no, che non pensava che lo fosse – e che non dovevo preoccuparmi. Io dissi che volevo tornare a casa >>.

(G. Sereny, In quelle tenebre, Milano, Adelphi, 1999, pp. 181-185. Traduzione di A. Bianchi)

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