Le memorie di un fotografo tedesco

Joe Heydecker era un fotografo professionista al servizio della Wehrmacht; indossò la divisa dell’esercito tedesco, ma non era per niente nazista. Anzi, disgustato dalla realtà che vedeva, realizzò numerose fotografie nel ghetto di Varsavia, che ne documentano il dramma con pietà e intensa partecipazione emotiva. Nelle sue memorie, Heydecker è molto duro nei confronti degli alti ufficiali tedeschi, i quali – nell’estate 1941 - si accorsero che diversi soldati tedeschi avrebbero volentieri assistito con soddisfazione o addirittura partecipato alle azioni.

La notizia dell’operato dei gruppi d’azione si diffuse nella Wehrmacht senza difficoltà, se ne parlava come di un ordinario spidocchiamento. Molti soldati assistevano al massacro con disinteresse, altri vi presero parte. A me il destino ha risparmiato di venire vicino ai luoghi degli assassini; ma ne ero a conoscenza, come lo erano tutti.

Solo un esempio: un membro della compagnia, di ritorno da una missione, raccontò con tutta disinvoltura che migliaia di ebrei uccisi erano stati sepolti in fosse comuni presso Zitomir e Berdiscev. Egli indicò con molta precisione il luogo sulla mappa topografica, che mi restò a lungo in memoria, tanto che alla fine della guerra potei segnalarlo, a verbale, all’aministrazione militare americana a Bad Liebenstein, e personalmente al capitano Kilbourn.

Vent’anni fa ho messo per iscritto la mia unica personale esperienza ancora bene impressa nella memoria: ho visto un misero corteo di ebrei in un improvvisato punto di raccolta vicino a Smolensk. Il suolo era indurito dal gelo. Le persone, che vi erano ammassate da diversi villaggi, aspettavano in piedi e nel gelo il loro destino. I più non avevano mantello, alcuni bambini erano avvolti nelle giacche degli adulti, altri indossavano degli stracci. Chiesi a una delle guardie, membro delle SS: <<Che succede a costoro?>>.

Egli si volse un po’ e disse con tatto, in modo che le sue parole fossero sentite solo da me: <<Vengono fatti fuori>>.

Ciò che senza remore veniva dichiarato, ciò che apparteneva al normale bagaglio spirituale di milioni di combattenti (è un’altra questione la misura maggiore o minore della responsabilità di ciascuno), ciò che nella Wehrmacht era così diffusamente conosciuto, tutto questo non si può più ritenere uno speciale segreto. Non so veramente quanti ciechi e sordi abbiano servito nella Wehrmacht e nelle altre organizzazioni all’Est. A giudicare dalle dichiarazioni di proscioglimento, che furono tanto generalizzate dopo la guerra, deve essere stato un numero enorme. […]

Il 14 settembre 1941 il maresciallo Rudolf Gerd von Rundstedt diramava un ordine del giorno all’armata, che rivelava indirettamente la misura del coinvolgimento della Wehrmacht, dagli alti gradi fino all’ultimo soldato. Il documento dice: <<L’investigazione e la lotta contro gli elementi ostili al Reich (comunisti, ebrei e simili) nei territori occupati sono compito esclusivo delle unità speciali e della polizia di sicurezza, che, nelle rispettive responsabilità, decidono ed eseguono le misure necessarie. Sono proibite l’arbitraria iniziativa di singoli membri della Wehrmacht o la partecipazione di membri della Wehrmacht agli eccessi della popolazione ucraina contro gli ebrei, come pure la presenza o la ripresa fotografica durante l’esecuzione dei provvedimenti dei plotoni speciali. Questo divieto è da portare a conoscenza di tutte le unità. Responsabili per l’osservanza del divieto sono i superiori addetti alla disciplina a tutti i livelli del servizio>>.

Dice in altre parole che membri della Wehrmacht hanno arbitrariamente operato contro gli ebrei e hanno partecipato agli eccessi; che sono stati presenti e hanno fotografato le azioni delle unità speciali – cioè le esecuzioni di massa – e tutto questo in una misura considerevole, perché altrimenti non sarebbe stato necessario un ordine del giorno all’armata e la sua capillare diffusione fra i membri di tutte le unità

[…]

La nostra compagnia si muoveva a ridosso del fronte; il reparto non aveva nient’altro da fare che sviluppare i negativi realizzati dai fotografi ed eseguire degli ingrandimenti 9x12, che erano poi inviati a Berlino. Noi vedevamo così il fronte solo sulla carta al bromuro d’argento. Colonne di fumo all’orizzonte, villaggi in fiamme, mezzi corazzati sovietici distrutti, molti soldati caduti. I tedeschi caduti non potevano essere ripresi dagli operatori. Una fotografia è rimasta particolarmente impressa nella mia memoria: mostrava in primo piano il viso regolare, sofferente di una giovane donna, che aveva operato come conduttrice di un carro armato russo; ferita, era stata tratta in salvo dal carro in fiamme.

Qualche volta c’era penuria di forniture, mancava la carta da foto, il che non ci angustiava più di tanto. Le vie di rifornimento diventavano sempre più lunghe e difficili. Confezionavamo le sigarette con tabacco Machorcka – ma era tabacco? – e usavamo la carta del giornale Pravda. Spesso le colonne dei rifornimenti passavano accanto ai nostri accampamenti, ma non erano più composte di convogli motorizzati, bensì di carri di contadini – detti carri Panje – tirati faticosamente da magri cavalli nel fango di terreni paludosi, mentre i soldati che li accompagnavano bestemmiando camminavano accanto a passi pesanti. Si avvertivano cupi presentimenti, l’inverno non era più lontano, l’assalto a Mosca diventava più lento, più duro. Il destino di Napoleone si annunciava da più di un segno.

(J. Heydecker, La mia guerra. Sei anni nella Wehrmacht di Hitler. Rapporto di un testimone, Roma, Editori Riuniti, 2002, pp. 142-146. Traduzione di R. Muratore)

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