La repressione della lotta partigiana come pretesto
Capi supremi consci delle loro responsabilità non possono abbandonare l’esecuzione delle rappresaglie al capriccio dei singoli comandanti. L’assenza di direttive precise da parte dei vertici militari equivale a un codardo scaricabarile a danno dei sottoposti. Ma poiché è ovvio per chiunque che la mancanza di direttive ha per conseguenza il disordine delle rappresaglie, l’unica conclusione possibile è che ai più alti livelli il disordine fosse voluto.
E’ fuori di dubbio che le rappresaglie, da parte sia della Wehrmacht sia delle SS e delle unità di polizia, furono di gran lunga eccessive. Questo fatto emerse ripetutamente nelle riunioni coi generali tenute da Schenckendorff [generale di fanteria, comandante della zona delle retrovie del Gruppo di Armate Centro, e dunque responsabile della sicurezza nelle aree occupate e della lotta antipartigiana – n.d.r.]. Per di più, la lotta ai partigiani fu portata a pretesto sempre più spesso per l’esecuzione di altre misure, come lo sterminio di ebrei e zingari e la sistematica riduzione numerica dei popoli slavi di circa 30 milioni di unità (per garantire la supremazia del ceppo germanico), o le fucilazioni e i saccheggi per terrorizzare la popolazione civile.
I comandanti in capo con cui sono entrato in contatto e coi quali ho collaborato (per esempio i feldmarescialli Weichs, Küchler, Bock e Kluge, il colonnello generale Reinhardt e il generale Kitzinger) erano al corrente quanto me degli scopi e dei metodi della guerra contro i partigiani.
(M. Burleigh, Il Terzo Reich, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 625-626. Traduzione di C. Capararo, S. Galli, M. Mendolicchio)