La grende azione del 30 novembre 1941: il racconto di una sopravvissuta

Frieda Fried fu l’unica ebrea sopravvissuta alla grande azione che eliminò 13 000 ebrei di Riga, il 30 novembre 1941. Sfuggita miracolosamente alle fucilazioni di Rumbula, passò tre anni a vagare per le fattorie della Lettonia, fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Frieda Fried era una donna e per di più una sarta diplomata, cioè una lavoratrice specializzata. Alla fine del 1941, tuttavia, queste due caratteristiche non l’avrebbero salvata: il genocidio si era ormai messo in moto, a prescindere da considerazioni di tipo economico e senza più badare al sesso o all’età delle vittime.

La nostra colonna fu suddivisa in più gruppi. Ricevemmo l’ordine di svestirci. Anch’io mi spogliai; tenni soltanto la biancheria. Ma poi provai vergogna, perché attorno a me c’erano degli uomini e io non indossavo che una sottoveste; così raccolsi il mio grembiule da lavoro e me lo infilai. Avevo molto freddo e misi le mani in tasca, per scaldarle. Mi accorsi allora che in una delle tasche c’era un foglio. Vi diedi un’occhiata e vidi che si trattava del diploma che attestava la conclusione, con lode, della mia formazione professionale di sarta. Erano quindici anni che lo portavo con me. <<Mio Dio – pensai – forse questo foglio mi può salvare!>>.

Uscii dalla colonna e corsi da un tedesco che mi sembrava alto in grado. Gli dissi nella sua lingua: <<Signor ufficiale, perché stanno per uccidermi? Non dovrei essere uccisa. Guardi, non le sto mentendo, sono diplomata. Ecco il documento>>.

Mi allontanò con una spinta e caddi a terra. Quando cercai di rialzarmi, mi sferrò un calcio e gridò: <<Non mi seccare e non venire a mendicare da me con le tue carte. Portali a Stalin i tuoi documenti>>.

Così tornai in colonna. Mi misi le mani nei capelli; ne strappai una ciocca senza avvertire alcun dolore. Intanto i tedeschi ci spingevano avanti con il calcio del fucile e la fossa si avvicinava. Mi rivolsi a un poliziotto e cercai di spiegargli che ero una sarta e che volevo lavorare. Gli mostrai il mio diploma. Ma nessuno mi dava retta. Arrivai alla fossa; c’erano alti alberi su ambo i lati e poco più in là iniziava un piccolo sentiero. Uno per volta i condannati lo percorsero e sparirono giù per il pendio; poi solo le raffiche dei mitra, tac-tac, tac-tac.

<<E’ davvero la fine? - mi chiesi – Tra pochi minuti sarò morta, cesserò di vedere il sole e di respirare? Non può essere vero. Dopotutto i miei documenti sono in ordine, ho lavorato onestamente per tanti anni, i clienti non si sono mai lamentati. Ma questo ai tedeschi non interessa. Non voglio morire! Non voglio!>>. Rivolta all’ufficiale che impartiva gli ordini gridai con voce alterata: <<Che cosa volete farmi? Sono un’operaia specializzata. Ecco i documenti. Sono un’operaia specializzata!>>.

Mi colpì alla testa con la pistola e caddi a terra vicino alla fossa. Mi rannicchiai e cercai di rimanere immobile. Circa mezz’ora dopo udii qualcuno dire in tedesco: <<Le scarpe, mettetele qui>>. Ero riuscita a trascinarmi un po’ più in là. Socchiusi un occhio e vidi lì accanto una scarpa. Ben presto altre scarpe iniziarono a piovermi addosso. Probabilmente la tela grigia del mio grembiule si confondeva con il colore delle calzature e così nessuno mi aveva notata. Avvertii un leggero torpore: sopra di me si era già formata una montagna di scarpe. Soltanto il mio fianco destro si stava lentamente intorpidendo. Avrei potuto infilarvi sotto qualche scarpa, ma avevo paura di smuovere il mucchio e di farmi così scoprire. Rimasi immobile fino al calar della sera e mi trasformai in un pezzo di ghiaccio.

Sentivo gli spari, a breve distanza da me; udivo distintamente gli ultimi singhiozzi delle vittime e il gemito dei feriti, che venivano gettati vivi nelle fosse comuni. Morendo, qualcuno malediceva i propri carnefici; altri rivolgevano un estremo pensiero ai figli o ai genitori; altri ancora pregavano a voce alta… Alcuni chiedevano, all’ultimo momento, il permesso di coprire i propri bambini, perché non prendessero freddo. E io me ne stavo lì, costretta ad ascoltare ogni cosa. Mi giunse più volte all’orecchio la voce di mio fratello; poi quella della mia vicina. In quegli attimi mi parve di impazzire.

Verso sera le armi tacquero. I tedeschi sospesero le operazioni. Tuttavia rimasero diverse sentinelle, a fare la guardia al mucchio dei vestiti. Alcune di loro si piazzarono a pochi passi da me. Fumavano e chiacchieravano. Sentivo le loro voci; erano allegri, contenti: <<Abbiamo lavorato sodo oggi…>>. <<Sì, è stata una giornata rovente…>>. <<Però ne sono rimasti ancora parecchi. Avremo ancora un bel daffare…>>. <<Be’, a domani…>>. <<Sogni d’oro…>>. <<Non posso lamentarmi, i miei sogni sono sempre stupendi>>.

(V. Grossman – I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, Milano, Mondadori, 1999, pp. 539-541. Traduzione di L. Vanni)

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