Miseria, fame e malattia nel ghetto di Varsavia

Marek Edelmann fu uno dei capi della rivolta del ghetto di Varsavia nell’aprile 1943. Riuscì a salvarsi fuggendo attraverso la rete fognaria. Nel 1945, pubblicò un breve resoconto intitolato Il ghetto lotta. Nella prima parte, descrive le drammatiche condizioni di vita del ghetto negli anni 1940-1942.

La fame cresce di giorno in giorno. Essa esce dagli alloggi oscuri e sovrappopolati per esporre nella strada lo spettacolo dei ventri caricaturalmente gonfi, dei piedi purulenti avvolti in stracci sporchi, coperti di ascessi e di piaghe causate dal gelo e dalla denutrizione. La fame parla con la bocca dei mendicanti, dei vecchi, dei giovani e dei bambini fin nei cortili. I bambini mendicano in massa. Mendicano nel ghetto. Mendicano nella parte ariana [di Varsavia – n.d.r.]. Bambini di sei anni scivolano tra i reticolati, anche sotto gli occhi dei gendarmi, per elemosinare cibo dall’altra parte. Ciascuno di loro fa vivere tutta una famiglia. Sovente uno sparo nei reticolati avverte i passanti che uno di questi piccoli trafficanti è stato appena assassinato nella lotta contro la fame. I ladruncoli fanno la loro apparizione: dei monelli o più esattamente degli scheletri di monelli che strappano le sporte ai passanti e ne divorano subito il contenuto, mentre fuggono. Nella fretta, gli capita spesso di ingoiare sapone o legumi secchi.

La miseria è così grande che la gente muore di fame in mezzo alla strada. Ogni giorno, verso le quattro o le cinque di mattina, le imprese di pompe funebri raccolgono per le strade una quindicina di cadaveri che i passanti hanno ricoperto di giornali, fermati da una pietra perchè non volino via. Alcuni cadono per la via, altri muoiono in casa, ma la famiglia spoglia completamente il cadavere, per ricavare denaro dai suoi vestiti, e getta il corpo fuori casa perchè la sepoltura sia pagata dal Consiglio ebraico.

File di carretti avanzano nelle strade. Le carcasse scheletriche sono ammucchiate le une sulle altre. Le teste traballano ad ogni sobbalzo sul selciato, sbattono l’una contro l’altra e urtano le sponde del carro.

Il tragico arriva al suo colmo quando il ghetto è invaso dagli abitanti deportati dalle piccole città e dai villaggi. Essi non hanno né casa né alloggio. Senza tetto, sporchi, vagano per le strade. Vi si accampano per interi giorni, dormono e mangiano nei cortili. Infine vanno ad alloggiare nei centri di raccolta, dei locali provvisori per rifugiati, aperti per loro. Questi centri sono una delle piaghe più orribili del ghetto, una catastrofe impossibile a vincere (solo una parte dei bambini può essere trasferita in internati e trova migliori condizioni). Nei grandi edifici vuoti e non riscaldati delle sinagoghe, nelle sale delle fabbriche abbandonate, si stringono centinaia di persone. Sporche, pidocchiose, senza possibilità alcuna di lavarsi, denutriti e affamati (il Consiglio ebraico distribuisce la zuppa d'acqua una volta al giorno), giacciono su paliericci rivoltanti, senza più la forza di alzarsi. Macchie verdi di muffa si spandono sui muri. I pagliericci sono per terra, raramente su una lettiera. Per ogni famiglia non c'è, molto spesso, che un solo posto per dormire. Là, più nessun ritegno vela il regno della miseria e della fame.

Nello stesso tempo il tifo fa strage. Sulle porte degli appartamenti o dei caseggiati appaiono sempre più numerosi gli avvisi di colore giallo: Fleckfieber. Gli occupanti miserabili dei centri di raccolta sono colpiti in massa dall'epidemia. Gli ospedali, pur riservati esclusivamente alle malattie contagiose, straripano di malati. Ne vengono ammessi ogni giorno centocinquanta, in un servizio. Essi finiscono per stare stesi a due o tre in uno stesso letto e invadono i pavimenti. Si guarda con impazienza il moribondo nella speranza che lasci presto il suo posto al seguente. Troppo scarsi, i medici non ne possono più. Le persone muoiono a centinaia. Il cimitero non basta per tutti. I becchini non riescono più a seppellire. Essi gettano cinquecento cadaveri dentro ogni fossa comune, ma altre centinaia attendono vari giorni, senza alcun riparo, diffondendo per tutto il cimitero un fetore nauseabondo e dolciastro. L'epidemia si estende. Il tifo e dappertutto. Minaccia da tutte le parti. come la fame, diviene il signore onnipotente del ghetto. La mortalità mensile raggiunge la cifra di seimila, cioè il 2 per cento della popolazione.

(M. Edelmann - H. Krall, Il ghetto di Varsavia. Memoria e storia dell'insurrezione, Roma, Città Nuova, pp. 34-36. Traduzione di M. Meghnagi)

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