Le contraddizioni dei ghetti

Sovraffollamento e malattie
Ghetto di Varsavia, 1941. Una bambina. Foto di Joe HeydeckerNei confronti degli ebrei polacchi rinchiusi nei ghetti, i nazisti praticarono una politica ambigua, che lo storico registra di nuovo quando esamina i lager di Auschwitz. In teoria, infatti, il primo compito che era assegnato ai reclusi era quello di lavorare per lo sforzo bellico tedesco. In pratica, però, la manodopera di fatto era sprecata, e comunque costretta a vivere in condizioni tali che il risultato del meccanismo non era la produzione, ma la morte di massa. Del resto lo stesso Hans Frank, il 25 novembre 1940, lo disse senza mezzi termini: <<Più ne muoiono, meglio è>>.

Il principale problema che gli ebrei rinchiusi nei ghetti dovettero affrontare fu quello del sovraffollamento. A Varsavia, una popolazione di almeno 400 000 persone fu obbligata a vivere in un quartiere che comprendeva appena 73 strade (o parti di strade) sulle 1800 totali della capitale polacca e che, al massimo, occupava il 2,4% dell’intero spazio urbano; quei 400 000 individui, però, rappresentavano il 30% della popolazione complessiva della città.

Nel 1940, l’area del ghetto di Varsavia era di 4 Km per 2,5; nel 1941, mentre periodicamente venivano fatti affluire nuovi gruppi di ebrei dalle regioni circostanti, la superficie del quartiere ebraico fu ulteriormente ristretta, col risultato che, nell’ottobre di tale anno, la media era di 13/15 abitanti per vano. Inevitabile, in questo contesto così degradato sotto il profilo igienico, il dilagare delle malattie, prima fra tutte il tifo (propagato dai pidocchi).

Infine ricordiamo che, a Varsavia, solo 27 000 ebrei su 400-450 000 avevano un lavoro e quindi possedevano un reddito che permetteva loro di acquistare generi alimentari. Tutti gli altri erano a carico del Consiglio ebraico, o meglio vivevano di elemosina, cioè soffrivano la fame in maniera atroce.
Il ghetto di Lodz

La situazione non era migliore a Lodz, che i nazisti ribattezzarono Litzmannstadt e che si trovava nel Warthegau. Nel gennaio 1940, circa 160 000 persone furono concentrate nei quartieri vicino al cimitero ebraico e costretti a vivere in 32 000 appartamenti; la maggior parte di essi era di legno e composto di un solo locale. Solo 725 disponevano di acqua corrente; il 95% era del tutto privo di bagni, di collegamenti alla rete fognaria e di elettricità. La superficie totale del ghetto era di 4 chilometri quadrati; in ogni stanza, in media, erano alloggiate 6 persone.

Nelle iniziali intenzioni del governatore, Arthur Greiser, la sistemazione appena descritta era provvisoria: egli infatti si aspettava che gli ebrei del Warthegau sarebbero stati di lì a poco deportati verso Est, nel Governatorato Generale. Inoltre, era convinto che gli ebrei – negli anni passati – avessero accumulato <<enormi fortune>>. Pertanto, la minaccia della morte doveva servire come strumento di pressione, o meglio di estorsione, delle ricchezze che sicuramente - si diceva -  tenevano nascoste.

Nell’agosto del 1940, la deportazione verso Est non era ancora iniziata, a causa dell’assoluta impossibilità di stanziare grandi masse di popolazione nella Polonia orientale. Pertanto, anche se vivevano in queste condizioni terribili – cui vanno aggiunti il freddo e le malattie – agli ebrei di Lodz fu imposto di lavorare. Alla fine, vennero creati ben 117 laboratori, che producevano uniformi per l’esercito, ma anche corsetti, reggiseni, pellicce e tute da motociclista, che venivano venduti con profitto in Germania.

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