La partenza da Kiev e l'eccidio, in una ricostruzione russa

All’alba del 29 settembre, migliaia di ebrei si radunarono, convinti di partire per essere reinsediati, e certo del tutto inconsapevoli dell’intenzione nazista di eliminarli in massa. I testimoni ricordano una fiumana enorme di persone, che lentamente uscì dalla città, diretta verso il burrone denominato Babij Jar. Il passo seguente è tratto dal Libro nero, un accurato resoconto della Shoah in URSS predisposto da V. Grossman e I. Erenburg. I passi in corsivo furono cancellati dalla censura (che comunque, in un secondo momento, vietò la pubblicazione di tutto il testo).

Alle prime luci del 29 settembre 1941 gli ebrei di Kiev iniziarono a muoversi a poco a poco da ogni parte della città in direzione del cimitero ebraico di via Lukjanovskaja. Molti si aspettavano che li attendesse un trasferimento in qualche città di provincia. Ma alcuni l’avevano ormai capito: Babij Jar significava la morte. Per questo si ebbero quel giorno tanti suicidi.

Le famiglie avevano cotto il pane per il viaggio, cucito zaini a spalla, noleggiato veicoli e carri. I vecchi, uomini e donne, procedevano sorreggendosi l’un l’altro. Le madri tenevano in braccio i neonati o spingevano le carrozzine. La gente trascinava sacchi, fagotti, valigie e casse. I bambini seguivano da vicino i genitori. I ragazzi non avevano quasi nulla, mentre gli adulti avevano cercato di portare con sé il più possibile. I vecchi, pallidi e gementi, venivano sorretti dai nipoti. Infermi e malati, avvolti in coperte e lenzuoli, erano trasportati in barella dai congiunti.

La folla procedeva in colonne ininterrotte lungo la via L’vovskaja, mentre i marciapiedi erano presidiati dai tedeschi di pattuglia. Dal primo mattino sino a notte inoltrata affluì sulla carreggiata un così gran numero di persone che attraversare la L’vovskaja risultava problematico. Questa marcia di morte durò tre giorni e tre notti. La città ammutolì. Da via Pavloskaja, via Dimitrievskaja, via Volodarskij e via Nekrasov la gente si riversava nella L’vovskaja come affluenti che si gettano in un fiume.

La L’vovskaja prosegue in via Melnik, da dove ha inizio un territorio desolato di colline brulle e gole in ripida pendenza: Babij Jar. A mano a mano che la fiumana di gente si avvicinava a Babij Jar, il mormorio cresceva, mescolandosi a gemiti e sospiri. C’erano delle scrivanie all’aperto. La folla, ferma in attesa alla barriera innalzata  dai tedeschi al termine della strada, non poteva vederle. Dal corteo venivano fatte uscire e condotte sotto sorveglianza a farsi “registrare” dalle trenta alle quaranta persone per volta. Dovevano consegnare i documenti e gli oggetti di valore. I documenti venivano buttati per terra (testimoni oculari raccontano che il posto era ricoperto da uno spesso strato di cartacce, documenti d’identità e libretti di lavoro strappati). Quindi i tedeschi obbligavano tutti, senza eccezione – anche ragazze, donne, vecchi e bambini –, a svestirsi completamente. I vestiti venivano raccolti e impilati con cura. Dalle dita degli uomini e delle donne denudati venivano strappati gli anelli. Poi i carnefici disponevano i condannati sull’orlo di un profondo dirupo e li fucilavano alla schiena. I corpi rotolavano giù per il ripido pendio. I bambini piccoli venivano buttati nel precipizio vivi Giungendo sul luogo dello sterminio non pochi impazzivano. Molti di quelli il cui turno non era ancora venuto vennero a sapere che cosa accadeva a Babij Jar e si prepararono. I vecchi indosarono abiti neri, si radunarono nelle case per pregare e solo in seguito si incamminarono per via L’vovskaja.

La maggior parte degli abitanti di Kiev non seppe fino all’ultimo del massacro che i tedeschi stavano consumando a Babij Jar.

(V. Grossman – I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, Milano, Mondadori, 1999, pp. 28-29. Traduzione di L. Vanni)

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