Il fiume Bug: una frontiera invalicabile

Moltissimi ebrei polacchi, intrappolati nella zona occupata dai tedeschi, cercarono di varcare il fiume Bug, che segnava il confine con le regioni annesse dall’URSS. Le guardie di frontiera sovietiche, che inizialmente tennero un atteggiamento disponibile, nei confronti dei fuggiaschi, ricevettero infine l’ordine di sparare sui profughi e su chiunque cercasse di lasciare la Polonia tedesca. Nel suo racconto autobiografico Un mondo a parte (pubblicato nel 1951), lo scrittore polacco Gustav Herling ha ricostruito la paradossale situazione venutasi a creare nel 1940, lungo il confine tedesco-sovietico.

Durante i mesi dell’inverno 1939-1940 il Bug, lungo tutto il suo corso, fu teatro di avvenimenti terribili, che furono solo il presagio di ciò che si preparava per milioni di ebrei polacchi: cinque anni si lunga distruzione. I tedeschi non cercarono di fermare le masse che fuggivano, ma con bastoni e calci del fucile diedero loro un’ultima lezione pratica della filosofia del mito della razza; dall’altra parte della linea di demarcazione i russi custodi del mito di classe, vestiti con lunghi cappotti di pelliccia, coi berretti a visiera, e con le baionette in canna, andarono incontro ai profughi che volavano verso la terra promessa con cani poliziotti e con colpi di fucile mitragliatore.

Durante i mesi di dicembre, gennaio, febbraio e marzo, le folle di ebrei si accamparono in una terra di nessuno neutrale di un miglio circa sulla riva sovietica del fiume Bug, dormendo all’aperto, coprendosi con rosse coperte imbottite, accendendo fuochi di notte o picchiando alle porte delle vicine capanne di contadini per chiedere aiuto e asilo. Nei cortili delle fattorie sorsero piccoli mercati di baratto: vestiti, gioielli e dollari venivano dati in cambio di cibo e di aiuto ad attraversare il fiume per raggiungere l’altra riva. Ogni capanna di contadini lungo la frontiera diventò un piccolo centro di contrabbando, e la popolazione del distretto rurale limitrofo prosperò rapidamente, benedicendo questa fortuna inaspettata. Ogni abitazione era assediata da una moltitudine di ombre, che guardavano dentro attraverso le finestre e picchiavano sui vetri, e che poi facevano ritorno, coi volti contratti senza speranza, ai fuochi del loro accampamento.

La maggior parte tornò nella Polonia occupata dai tedeschi e fu soppressa quasi completamente negli anni successivi nei campi di concentramento di Auschwitz, Majdanek, Belsen e Buchenwald. Alcuni tuttavia non si arresero, e rimasero sulle rive del fiume, aspettando ostinatamente un’occasione per attraversarlo. Qualche volta di notte qualcuno si staccava da quell’informe massa umana, correva per parecchie centinaia di metri attraverso la pianura piena di neve, e poi, preso nel raggio di un riflettore sovietico, cadeva in avanti sotto una scarica di mitragliatrice. Allora lamenti e imprecazioni si univano a scoppi di pianto spasmodico, e le mani si alzavano come le fiamme sottili dei fuochi, minacciando con rabbia il cielo; poi tutto si spegneva di nuovo nel silenzio dell’attesa.

(G. Herling, Un mondo a parte, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 188. Traduzione di G. Magi, riveduta dall’autore)

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