La partenza di un condannato per la Siberia

Olga Adamova-Slozberg visse in lager dal 1936 al 1956. La scena seguente si svolge nella regione della Kolyma e mostra le difficoltà di chi per la prima volta si trovava a dover lavorare nel freddo clima della Siberia nord-orientale.

 

Dopo quattro anni di prigione, dove la punizione più grave era rappresentata dalla mancanza di attività, giungemmo al lager di Magadan. Ci accolsero bene. I nostri visi pallidi, l’aria spaventata e disorientata ci distinguevano da chi stava già nel lager. I primi tre giorni non lavorammo, riposammo e discutemmo sui vantaggi della nostra nuova condizione. Tanto più che vedevamo della gente e potevamo parlare. La popolazione del lager (circa mille persone) ci sembrava enorme; quanta gente con cui parlare, quante nuove possibili amicizie! [...]

Il terzo giorno vennero a dirci che chi si sentiva in forze poteva già andare al lavoro (l’obbligo cominciava dopo una settimana dall’arrivo); diciotto di noi accolsero la proposta. La vigilia eravamo eccitate come prima di una festa, tanto grande era il nostro desiderio di uscire dal campo, di camminare per una strada, in uno spazio non recintato, di vedere il mare, il bosco.

Al momento di comporre le squadre l’addetto allo smistamento ci disse: "Sceglietevi il caposquadra". Fui scelta io. Passai lo sguardo sulla mia squadra con occhio da padrona. Vidi volti di intellettuali, teste grigie. Tra questi due professori, una scrittrice, due pianiste, una ballerina e sei funzionari di partito. Tutta gente di città, con i muscoli atrofizzati dalla lunga inattività. Tutte ansiose di mostrare col proprio lavoro "come siamo oneste, come vogliamo lavorare, come siamo sovietiche". [...]

Si avvicina Kolmogorskij, il responsabile del reparto. É un uomo sulla quarantina, un po’ troppo ricercato nel vestire, ci pare, col berretto in pelliccia di astrakan, stivali lustri e soprabito stretto in vita. Mi si avvicina sorridendo e mi spiega cosa dobbiamo fare.

"Dovete scavare il canale. É già stato scavato per un metro, deve essere profondo tre metri. Sono previsti nove metri cubi di terra ciascuno al giorno. Lei può anche fare a meno di lavorare perché non c’è una norma per il caposquadra. In estate sono previste quindici ore di lavoro al giorno, con un’ora di intervallo per il pranzo. Si inizia alle sei e si finisce alle nove. Il pranzo viene portato alle una".

Dopo di che ci distribuisce delle pale arrugginite e noi ci mettiamo al lavoro. Non ci rendiamo conto di cosa significhino nove metri cubi, ma confusamente capiamo cosa siano quindici ore di lavoro al giorno. Siamo piene di entusiasmo. Ci disponiamo a distanza di tre metri l’una dall’altra e cominciamo a lavorare. Avverto che si potrà fumare una volta ogni ora, per dieci minuti.

Cade una pioggia gelata. Il terreno è argilloso e la pala non entra in profondità; riusciamo a prendere solo un po’ di argilla sulla punta. L’argilla è tremendamente pesante e ha la cattiva abitudine di scivolare via quando lentamente solleviamo la pala sul bordo. Non abbiamo la forza di buttarla con un movimento secco della pala. Continuiamo il lavoro. Non ho orologio, ma sento che deve essere passato molto tempo, a giudicare dalla stanchezza.

"Intervallo per fumare!" avverto.

La mia coraggiosa squadra protesta: "Ma se sono passati appena venti minuti!". Forse sono passati solo venti minuti, ma io non ho più forze, e neppure le altre. Posiamo le pale e ci appoggiamo sul manico. Do il comando: "Stop!" e ci rimettiamo al lavoro.

Prima di pranzo faremo trenta pause per il fumo e ogni volta diventa sempre più difficile dare il comando di rimettersi al lavoro, riprendere la pala dal manico reso scivoloso dall’argilla, immergerla nel terreno e gettare dei piccoli grumi di mota sul bordo del canale. [...] Accanto a me c’è la piccola, coraggiosa, Raia Ginzburg. Vedo il sudore che le scende a fiotti dalla fronte. Si morde un labbro ma ogni volta che sto per dichiarare i dieci minuti per la sigaretta cerca di convincermi: "Altre dieci palate". [...]

Si scava. Sembra che il segnale della fine non debba venire mai. Perdo il conto degli intervalli per fumare e alla fine non protesta più nemmeno Raia. Scaviamo e continua a piovere. I giacconi sono fradici e le scarpe impastate di mota. Continuiamo a scavare. Finalmente una campanella. É il segnale. La strada del ritorno mi sembra terribilmente lunga.

Il primo giorno oltrepassiamo la mensa e ci fermiamo nella nostra baracca per lavarci prima della cena. Ma poi ci rendiamo conto che non ha senso tornare indietro, non abbiamo più la forza di uscire fuori. Ci buttiamo sulle brande e ci addormentiamo di colpo; il segnale della sveglia arriva dopo troppo poco tempo. Poi impariamo a fermarci a cenare direttamente di ritorno dal lavoro, senza lavarci e impastate di fango; dopo andiamo alla baracca.

(O. Adamova - Sliozberg, Il mio cammino, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 88-91. Traduzione di F. Fici)

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