Il sistema delle razioni

Negli anni Trenta, nei lager sovietici fu introdotto un nuovo sistema di razioni alimentari, fornite ai deportati in rigida proporzione rispetto al lavoro svolto. Il passo che riportiamo è di Olga Adamova-Slozberg, che visse in lager dal 1936 al 1956. La scena seguente si svolge nella regione della Kolyma (Siberia nord-orientale).

Con Galja Prozorovskaja si lavorava in coppia a preparare il legname. Da principio lei era più forte e più abile di me, ma a poco a poco cominciò a cedere. Lavorava sempre più lentamente e noi finivamo sempre più tardi la quota stabilita (otto metri cubi al giorno in due). Le altre andavano già a casa e noi non avevamo ancora sistemato le nostre cataste e non avevano la forza di andare più svelte.

Io mi arrendevo per prima: <<Basta, Galja, finiamo domani. Non ce la faccio più>>.

Galja rispondeva spaventata:

-E la nostra quota? Dobbiamo passare a quattrocento grammi?

Chi raggiungeva la quota aveva seicento grammi di pane al giorno, chi non la raggiungeva quattrocento. Quei duecento grammi di grammi di differenza erano decisivi per la nostra sopravvivenza, perché con quattrocento grammi di pane non si può vivere e lavorare a cinquanta sotto zero.

-Sì, la quota. Su, diamoci sotto!

Ammucchiavamo la catasta di legno, mentre io facevo qualche piccolo aggiustamento. Per esempio infilavo sotto la catasta neve e residui fradici di legname.

Galja mi scongiurava:

-Lascia perdere. Magari ci scoprono e sai che vergogna! Ex membri del partito che cacciano la neve sotto la catasta.

In una maniera o nell’altra avevano fatto i nostri otto metri cubi ed era già buio; per tornare a casa dovevamo ancora percorrere cinque chilometri. E così ci mettevamo in cammino, col ghiaccio che ci pungeva le mani, la schiena, il volto. Era necessario uno sforzo di volontà enorme per camminare ancora un’ora e mezzo o due nel gelo del bosco, quando le gambe pesano un quintale, le ginocchia tremano per la fame e la stanchezza, il fazzoletto che copre la testa si trasforma in una lastra gelata e si fa fatica a respirare.

Ma ci aspettano il tepore della baracca, una sbobba calda e duecento grammi di pane pesante, molle, ma così saporito. Più avanti c’è il riposo sulla branda e una stufa accesa. E andiamo avanti.

(O. Adamova - Sliozberg, Il mio cammino, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 106-107. Traduzione di F. Fici)

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