La fame

Nato nel 1919, lo scrittore polacco Gustaw Herling fu arrestato nel marzo 1940 e poi detenuto in un lager sovietico della regione di Kargopol’ fino al 1942. La prima edizione delle sue memorie di prigioniero uscirono a Londra nel 1951.

La fame... la fame è una sensazione orribile, che si trasforma in un’astrazione, in incubi alimentati da una continua febbre mentale. Il corpo è come una macchina surriscaldata, che lavora con accresciuta velocità e con minor carburante, e le braccia e le gambe scheletriche diventano simili a cinghie di trasmissione strappate. Gli effetti fisici della fame non hanno un limite al di là del quale la vacillante dignità umana possa ancora serbare il suo incerto ma indipendente equilibrio. Quante volte schiacciavo la mia faccia pallida contro i vetri gelati della finestra della cucina per implorare con uno sguardo muto da Fedka, il ladro di Leningrado addetto alle razioni, un altro mestolo di minestra acquosa! E ricordo che una volta il mio miglior amico, un vecchio comunista e compagno di gioventù di Lenin, l’ingegner Sodovskij, sulla piattaforma vuota della cucina mi strappò dalle mani un pentolino pieno di minestra e scappò via, e senza aspettare nemmeno di raggiungere la latrina, ingurgitò correndo la minestra bollente con labbra febbrili. Se Dio esiste, punisca senza pietà coloro che piegano il loro prossimo con la fame. [...]

Solo nel reparto dei bagni era possibile verificare gli effetti della fame, poiché nelle baracche di rado i prigionieri si spogliavano per la notte. La piccola baracca dei bagni era sempre immersa in una fosca luce grigia che filtrava attraverso i vetri sporchi delle finestre, e nuvole di vapore salivano da un’enorme tinozza di acqua bollente. Prima di entrare consegnavamo i nostri indumenti da disinfettare e liberare dagli insetti, e ricevevamo in cambio un pezzo di sapone grigiastro grande come una tessera da domino. Quando i vestiti erano stati disinfettati, venivano riportati dentro, appesi con anelli di ferro su una lunga pertica, da un prete anziano, il quale inclinando la pertica li faceva cadere sul pavimento nel passaggio. Era gradevole il contatto dei vestiti riscaldati sul corpo pulito. Non c’era altro modo di cambiarsi: andavamo al reparto dei bagni ogni tre settimane, e queste visite erano le uniche volte in cui ci lavavamo realmente, poiché di solito ci inumidivamo appena con la neve gli occhi incrostati, i nasi duri come conchiglie e le labbra screpolate. [...]

I primi sintomi di questa fame apparvero verso la fine dell’inverno 1941, e nella primavera ogni segno di vita era scomparso dal campo. Nelle cucine la minestra diventava ogni giorno più liquida, spesso la razione del pane era al di sotto del peso, e sparirono completamente le aringhe che tanto piacevano a Dimka. Gli effetti di questa fame divennero presto palesi. Le brigate facevano ritorno dal lavoro molto più lentamente, di sera si poteva a stento camminare lungo i sentieri ingombrati dalle incespicanti vittime della cecità notturna; nella sala d’aspetto della baracca sanitaria attendevano la visita del medico degli infelici dalle gambe gonfie come tronchi, coperte di piaghe suppurate prodotte dallo scorbuto; ogni sera una grande slitta riportava indietro al campo uno o due tagliaboschi svenuti sul lavoro. La fame non allenta di notte la sua stretta, anzi proprio allora, astuta e violenta, attacca con le sue armi misteriose. Solo Iganov, un vecchio russo della brigata dei carpentieri, pregava fino a notte alta, ricoprendosi il volto con le mani. Gli altri dormivano nel silenzio opprimente della baracca il sonno febbricitante di coloro che soffrono fisicamente, aspirando l’aria con un fischio attraverso le labbra semiaperte, rivoltandosi senza posa sull’uno e sull’altro fianco, borbottando e singhiozzando nel sonno con un mormorio che lacerava il cuore. [...]

Dimka aveva accettato di aiutare tre pulitori di latrine per un piatto in più di minestra, sicché tornava alla baracca poco prima di mezzanotte, bagnato e puzzolente come un topo di fogna. Per antica abitudine soleva ancora alzare il coperchio del secchio dei rifiuti, ma da molto tempo ormai non c’erano più resti di aringhe sul fondo vuoto.

(G. Herling, Un mondo a parte, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 156-162. Traduzione di G. Magi, riveduta dall’autore)

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