La condizione dei kulak deportati

Nel 1930, moltissimi contadini deportati come kulak inviarono al governo, al partito o ad altri enti lettere di protesta, in cui denunciavano le terribili condizioni in cui erano costretti a vivere insieme alle loro famiglie. Per ovviare a questa situazione (che spingeva alla fuga migliaia di deportati e non permetteva uno sfruttamento razionale del lavoro dei deportati) nel 1931 l’intero complesso delle colonie di confinati speciali fu affidato al controllo della OGPU. La lettera seguente è datata 25 aprile 1930 e fu inviata dalla regione degli Urali alla Croce rossa politica, un’organizzazione che forniva assistenza materiale e giuridica ai detenuti politici. L’autore è ignoto.

A cominciare dalla partenza dalla Crimea, quando molti di noi sono stati prelevati dalle loro case, ci è stata data disposizione di prepararci al trasferimento in venti minuti, e senza notificare alcuna accusa, né alcun articolo della legge, a molti hanno confiscato i beni senza lasciare assolutamente un minimo vitale, senza tenere conto se erano malati o sani, puerpere, invalidi – hanno ammassato tutti, quaranta persone per ogni carro merci, hanno dato tre secchi, uno dei quali doveva servire per i bisogni naturali, e due per l’acqua, e hanno chiuso il vagone col chiavistello. Qui tutti gli sventurati passeggeri hanno sentito per la prima volta in molti anni che era come se non fossero in un paese libero, o più esattamente che quelli che ci avevano trattato così non erano degni di chiamarsi amministrazione. 1800 persone fra le quali, oltre alle donne, c’erano uomini molto anziani, lattanti, hanno sentito che qualcuno aveva voluto farsi beffe di loro.

Dopo la partenza non è stata più fornita acqua, e i secchi vuoti ricordavano che cominciava un triste viaggio con conseguenze che era difficile prevedere. E poi? Poi non bisognerebbe neanche raccontarlo, perché era una vergogna passare vicino a dei centri civili, mentre nessuno sapeva che 1800 vite umane andavano chissà dove in condizioni antigieniche impossibili, senza acqua e senza cibo. Il secchio, di cui dovevamo servirci tutti, indipendentemente dal sesso, dall’età e dall’ora del giorno o della notte, era pieno fino all’orlo, e a ogni movimento dei vagoni si rovesciava, facendo un bagno puzzolente a quelli che dormivano sul pavimento. L’acqua era distribuita a discrezione del comandante del convoglio, in quantità assolutamente insufficiente. I pannolini dei bambini, mancando l’acqua per lavarli, marcivano, avvelenando l’atmosfera già soffocante del vagone chiuso. E così, un giorno dopo l’altro, nei dieci giorni che è durato il viaggio abbiamo ricevuto cibo solo quattro volte, e acqua calda una volta al giorno.

Nel vagone si è creato un focolaio di malattie infettive. Ci sono stati casi di mortalità infantile. A Nadezdinsk durante il trasbordo ci sono stati casi di aperto maltrattamento in pubblico, quando poliziotti e singoli funzionari del partito hanno picchiato, sotto gli occhi di tutti, vecchi e giovani sospettati per qualche motivo di non voler effettuare il trasbordo, o perché lavoravano lentamente. Durante il trasferimento sull’altro convoglio non si sentiva che urlare "muoviti, carogna". L’arrivo a destinazione poi, alla fabbrica Bogolslovskij, ha dimostrato ormai completamente quanto fosse assurda e disperata la nostra situazione. Qui ci chiamano confinati, ma noi non sappiamo chi siamo, di quale stato siamo sudditi, quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Siamo a disposizione dell’ispettorato forestale insieme alle nostre famiglie. Gli uomini sono stati mandati nel bosco a tagliare gli alberi, mentre le famiglie sono rimaste nel villaggio a fare la fame, aspettando che l’ispettorato forestale decida di mandarle nel bosco dai capifamiglia. Una parte delle famiglie vive nel bosco, ma se ci andranno anche le altre con l’arrivo dell’estate sarà inevitabile una mortalità infantile generalizzata, dato che tocca vivere in baracche comuni, e mancano l’assistenza medica e i controlli sanitari. Solo quelli che lavorano ricevono una magra razione, senza avere la possibilità di dividerla con le famiglie. Le famiglie invece non ricevono assolutamente nulla. Quelli che hanno portato qualcosa, mangiano alla meno peggio, gli altri fanno la fame, non si può comprare niente, perché ai confinati non vendono niente, e comunque non ci sono né posti dove comprare né denaro. Se ancora resistono è cedendo alla popolazione gli ultimi indumenti e la biancheria da letto in cambio di generi alimentari. La situazione dei viveri sta diventando catastrofica. L’amministrazione ci tratta in modo ostile. Alla popolazione locale è ordinato di non fornirci giornali, con la minaccia di sanzioni penali. Al cinema è appeso un avviso in cui si dice che ai confinati è vietato andare al cinema, e le persone sorprese a comprare biglietti dovranno risponderne penalmente. Al momento della consegna i pacchi vengono aperti e i destinatari li ricevono tutti strappati.

Ci sono anche altri fatti. Ci mandano al subbotnik [corvée di lavoro straordinario non retribuito], il che significa che a seconda delle necessità (e tale necessità capita quotidianamente) rastrellano per strada tutti i confinati senza tener conto né dell’età, né del sesso, e li spediscono sotto scorta a diversi lavori, per esempio a estrarre e caricare carbone o legna, e non dicono neanche dove li portano. La gente parte affamata e durante le 8-10 ore di lavoro e a lavoro finito non riceve cibo, provando i terribili tormenti della fame.

Una parte dei confinati è alloggiata nella chiesa, dove il sovraffollamento, il freddo, la mancanza di stufe e combustibile per preparare da mangiare hanno causato malattie generalizzate, un’alta mortalità infantile e una situazione di grande desolazione. Qui non si nasce e si muore. Forniscono assistenza medica solo a pagamento, e se non ci sono soldi, abbandonano il malato a se stesso. Una donna incinta che ha rifiutato di andare a lavorare per malattia, è stata arrestata dalle autorità locali e richiusa in "gattabuia", dove ha partorito anzitempo un bambino morto. I lavoratori nel bosco sono trattati nella maniera più brutale e disumana. Ma oltre a tutte le disgrazie che non dipendono dai confinati stessi, l’essenziale è che i contadini provenienti dalle zone meridionali della Crimea, giardinieri, orticoltori, coltivatori di tabacco, non sono assolutamente preparati né al lavoro di taglialegna, né al clima rigido, e senza volerlo s’impone una domanda: a chi serviva questo insensato sistema di isolamento e aperto maltrattamento di persone la cui ostilità verso il potere sovietico non è affatto dimostrata e richiede un’immediata verifica, o la cui colpevolezza si basa su testimonianze di singoli individui mossi da odii personali? Tenendo rigorosamente conto degli obiettivi del potere sovietico, confidiamo che nei nostri confronti il centro manifesterà almeno un minimo di attenzione, alleviando la nostra presente situazione.

(O.V. Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande Terrore, Torino, Einaudi, 2006, pp. 17-18. Traduzione di E. Guercetti)

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