I musulmani nel ricordo di Bruno Bettelheim

Bruno Bettelheim nacque a Vienna nel 1903. Al momento dell’invasione nazista dell’Austria, nel 1938, fu considerato un pericoloso avversario da rieducare, in virtù delle sue idee fortemente influenzate da Marx e da Freud. Fu pertanto internato per un anno prima a Dachau e poi a Buchenwald. Emigrato negli Stati Uniti, è diventato uno dei più importanti psichiatri impegnati nella cura dei bambini autistici.

I prigionieri diventavano dei musulmani quando non era più possibile suscitare in loro alcuna emozione. Per un certo tempo continuavano a lottare per procurarsi del cibo, ma dopo alcune settimane anche questo tipo di attività cessava. Nonostante la fame, nemmeno lo stimolo a nutrirsi raggiungeva più il loro cervello abbastanza chiaramente per indurli ad agire. Niente e nessuno poteva ormai influire su queste persone, perché niente, né dall’interno né dall’esterno, poteva più raggiungerli. Gli altri prigionieri, quando potevano, cercavano di essere gentili con loro, di dar loro da mangiare e così via, ma essi non erano più capaci di rispondere positivamente all’impulso da cui scaturivano quegli atti di bontà. Accettavano il cibo, almeno fin quando non avevano raggiunto la fase estrema di disintegrazione, ma ciò non destava in loro alcuna reazione emotiva: il cibo non faceva che scivolare dentro uno stomaco eternamente vuoto.

Finché chiedevano di mangiare, seguivano chi gliene dava, stendevano la mano per prenderlo per poi inghiottirlo voracemente, essi potevano ancora, e a prezzo di grandi sforzi, essere ricondotti alla condizione di prigionieri normali, anche se le loro condizioni erano già molto gravi. Nello stadio successivo di disintegrazione, il fatto di ricevere inaspettatamente un po’ di cibo illuminava per un momento il loro volto, e poteva far nascere nei loro occhi uno sguardo riconoscente, anche se solo rarissimamente si riceveva una parola di ringraziamento.

Ma quando non facevano più alcuno sforzo per prendere il cibo, non ringraziavano più, non cercavano più di sorridere o di rivolgere uno sguardo riconoscente al donatore, significava che non c’era più nulla da fare. Potevano ancora accettare il cibo; talvolta lo mangiavano, talvolta no, ma in ogni caso non davano più segno alcuno di reazione emotiva. Alla fine, cioè poco prima di raggiungere l’ultimo stadio, non mangiavano più.

(B. Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa Milano, Adelphi, 1988, pp. 180-181. Traduzione di P. Bertolucci)

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