L'inchiesta della OGPU

Secondo lo storico russo Oleg V. Chlevnjuk, che ha ricostruito minuziosamente la storia del sistema concentrazionario sovietico analizzando gli archivi della polizia segreta, oggi finalmente consultabili, "i documenti più attendibili e completi sono i rapporti delle ispezioni e verifiche di vario genere condotte nelle diverse istituzioni da organi concorrenti, oppure da una nuova dirigenza che mirava a screditare i predecessori e a porre in miglior luce le proprie realizzazioni". Alle Solovki, l’inchiesta più importante fu condotta dalla OGPU nel 1930.

Emerse una lunga serie di abusi e di sevizie, che vennero severamente condannate dall’amministrazione in quanto danneggiavano in modo serio la produttività dei detenuti ed il sistematico sfruttamentodel loro lavoro. Il testo seguente è tratto da uno degli atti d’accusa, redatti dopo che la commissione d’inchiesta (il 25 maggio 1930) ebbe depositato la propria relazione finale.

Oltre alle percosse con randelli e sutil’niki, bastoni appositamente induriti col fuoco, i detenuti d’estate venivano lasciati "alle zanzare", dovevano cioè stare, nudi, sull’attenti; oppure messi "sui trespoli", cioè su strette panche dove dovevano stare accovacciati dal mattino alla sera senza muoversi e in perfetto silenzio. Per la notte si assegnava solo un indumento caldo a testa.

Per ogni minima infrazione di tali regole, i detenuti erano picchiati e rinchiusi nelle "tende", locali di assi freddi e non riscaldati, dove erano tenuti finché non restavano assiderati. Al lavoro, i detenuti che non portavano a termine il loro "compito" erano lasciati, d’inverno, nel bosco, dove si congelavano mani e piedi. Uomini perfettamente sani si consumavano rapidamente, diventavano dei relitti e venivano inviati come invalidi alle isole Solovki [= ad esempio, al lazzaretto dell’isola di Anzer – n.d.r.].

A causa delle condizioni insopportabili e del lavoro insostenibile nelle trasferte si verificavano numerosi casi di automutilazione, cioè i detenuti volutamente si tagliavano con l’ascia le dita delle mani e dei piedi. Perdere una mano o una parte del piede era più facile che sopportare la vita nel bosco. Tutti picchiavano i detenuti: a cominciare dal direttore dei lavori per finire con gli uomini della scorta. Il quadro dell’arbitrio che regnava nei Soloveckie lagerja [= lager delle Solovki – n.d.r. ] non si esauriva con questo. Per tormentare i detenuti si costruivano speciali celle di rigore di un metro d’altezza, le cui pareti, il pavimento e il soffitto erano pieni di paletti aguzzi, e quelli che vi finivano non resistevano e "si pegavano", cioè morivano.

Si inscenavano false "fucilazioni". Al lavoro nella foresta esistevano i cosiddetti "permessi di libera uscita", quando a un detenuto che per un motivo o per l’altro non aveva svolto il suo "compito" per punizione si metteva sulle spalle un tronco di due metri con la relativa scritta, con l’ordine di portarlo fino al lager, spesso distante diversi chilometri dal luogo di lavoro.

(O.V. Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande Terrore, Torino, Einaudi, 2006, p. 46. Traduzione di E. Guercetti)

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