Capi e subordinati

I comandanti
Isole Solovki, 2000. Rovine dell’edificio della foresteria, adibito a direzione del lager, nella Baia della prosperità, sull’Isola grande. Il primo comandante del lager delle isole Solovki fu A. P. Nogtev (1892-1947), che rimase al suo posto fino al 1930. Numerose testimonianze concordano nel ricordare che lui stesso o uno dei suoi collaboratori, quando accoglievano un gruppo di nuovi prigionieri, amavano ricordare con sarcasmo che nel nuovo luogo in cui erano capitati non vigeva la legge ordinaria dell’Unione Sovietica. I prigionieri erano ora, unicamente, sotto il potere delle Solovki.

In pratica, al di là dei regolamenti di carattere generale, alle Solovki contava solo l’arbitrio del comandante, dei suoi collaboratori e delle guardie. Per far capire subito questo messaggio, poteva accadere che qualche detenuto fosse immediatamente ucciso, poco dopo l’arrivo, davanti a tutti gli altri, con un colpo di fucile, da Vask’ov, uno dei più stretti collaboratori di Nogtev.

Il potere centrale tenne verso questi satrapi locali un atteggiamento ambiguo. In genere li lasciava fare e si disinteressava per lungo tempo delle violenze che essi compivano. In certe occasioni, però, essi divenivano i comodi capri espiatori, su cui scaricare tutta l’infamia del trattamento disumano inflitto ai detenuti. Scattavano così inchieste, destituzioni e processi, che permettevano di salvare la reputazione del sistema, accusando singoli soggetti di essersi macchiati di particolari eccessi. Secondo tale logica, Nogtev venne arrestato nel 1938 e condannato a sua volta a 15 anni di lager (ove, tra l’altro, trovò la morte). Vas’kov, allo stesso modo, morì in uno dei lager della Kolyma nel 1937.

Imprevedibilità e arbitrio

Secondo Solzenicyn, il regime delle Solovki era ancora molto "lontano dall’indossare la corazza del sistema". Piuttosto, a suo parere, "l’aria delle Solovki" appariva come "uno strano miscuglio di estrema ferocia e di inconsapevolezza quasi indulgente". Questa valutazione nasce dal fatto che, a fianco di episodi di eccezionale brutalità, lo storico registra anche casi e situazioni del tutto particolari, destinati a scomparire nell’evoluzione successiva del sistema concentrazionario sovietico.

Ad alcuni detenuti, ad esempio, fu concesso ricevere non solo pacchi e lettere dall’esterno, ma persino visite di parenti. Nel 1926, ai numerosi religiosi reclusi fu concesso di celebrare la Pasqua, con una solenne e grandiosa cerimonia liturgica. Inoltre, all’interno del lager, venivano curate ricerche di storia dell’arte e dell’architettura russa, di etnologia e di archeologia; era pubblicata una rivista e (dal 1926 al 1931) funzionò anche un teatro. Nell’inverno 1929-1930, in occasione di una grande epidemia di tifo che colpì il lager, l’edificio del teatro fu adibito a lazzaretto per i malati, ma continuò a funzionare come luogo di spettacoli e di concerti.

Il medievista D. S. Lichacev, che fu internato alle Solovki dal 1928 al 1932, ricorda che la situazione complessiva era paradossale e assurda: "Tutto accadeva nel pieno di un’epidemia di tifo e con le torture dei lavori comuni. Era davvero l’isola dei miracoli". D’altra parte, lo stesso Lichacev riconosce che, per lui e vari altri intellettuali, le numerose attività culturali furono essenziali, ai fini della sopravvivenza, perché coloro che erano impiegati al museo, al giornale o al teatro non lavoravano all’aperto, al taglio del legname o nelle torbiere.

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