Il ricordo pesante della mancata solidarietà

Nel 1986, Primo Levi pubblicò I sommersi e i salvati: un’ampia riflessione sui temi che, in precedenza, aveva descritto nei suoi memoriali autobiografici. I capitoli più importanti sono dedicati ai problemi che, per l’autore, sono i più scottanti: la zona grigia, i compromessi morali, la vergogna e i sensi di colpa che tormentarono a lungo molti sopravvissuti.

Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana. Pochi superstiti si sentono colpevoli di aver deliberatamente danneggiato, derubato, percosso un compagno: chi lo ha fatto (i Kapos, ma non solo loro) ne rimuove il ricordo; per contro, quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso. La presenza al tuo fianco di un compagno più debole, o più sprovveduto, o più vecchio, o troppo giovane, che ti ossessiona con le sue richieste d'aiuto, o col suo semplice esserci che è già di per sé una preghiera, è una costante della vita in Lager. La richiesta di solidarietà, di una parola umana, di un consiglio, anche solo di un ascolto, era permanente ed universale, ma veniva soddisfatta di rado. Mancava il tempo, lo spazio, la privatezza, la pazienza, la forza; per lo più, colui a cui la richiesta veniva rivolta si trovava a sua volta in stato di bisogno, di credito.

Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare coraggio (in un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne italiano appena arrivato, che si dibatteva nella disperazione senza fondo dei primi giorni di campo: ho scordato che cosa gli ho detto, certo parole di speranza, forse qualche bugia buona per un nuovo, detta con l’autorità dei miei venticinque anni e dei miei tre mesi di anzianità [= di presenza all’interno del campo; i primi 2-3 mesi, periodo di iniziazione e di adattamento, erano i più difficili da superare – n.d.r.]; comunque, gli ho fatto dono di un’attenzione momentanea. Ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più spesso scosso le spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo proprio quando ero in campo da quasi un anno, e quindi avevo anche assimilato a fondo la regola principale del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a se stessi. Mai ho trovato espressa questa regola con tanta franchezza quanto nel libro Prisoners of Fear (Victor Gollancz, London, 1958) di Ella Lingens-Reiner (in cui però la frase viene attribuita ad una dottoressa che, contro il suo enunciato, si dimostrò generosa e coraggiosa e salvò molte vite):

“Come ho potuto sopravvivere ad Auschwitz? Il mio principio è: per prima, per seconda e per terza vengo io. Poi più niente. Poi io di nuovo; e poi tutti gli altri”.

Nell’agosto del 1944 ad Auschwitz faceva molto caldo. Un vento torrido, tropicale, sollevava nuvole di polvere dagli edifici sconquassati dai bombardamenti aerei, ci asciugava il sudore addosso e ci addensava il sangue nelle vene. La mia squadra era stata mandata in una cantina a sgomberare i calcinacci, e tutti soffrivamo per la sete: una pena nuova, che si sommava, anzi, si moltiplicava con quella vecchia della fame. Né nel campo né nel cantiere c’era acqua potabile; in quei giorni mancava spesso anche l’acqua dei lavatoi, imbevibile, ma buona per rinfrescarsi e detergersi dalla polvere. Di norma, a soddisfare la sete bastava abbondantemente la zuppa della sera e il surrogato di caffè che veniva distribuito verso le dieci del mattino; ora non bastavano più, e la sete ci straziava. E’ più imperiosa della fame: la fame obbedisce ai nervi, concede remissioni, può essere temporaneamente coperta da un’emozione, un dolore, una paura (ce ne eravamo accorti nel viaggio in treno dall’Italia); non così la sete, che non dà tregua. La fame estenua, la sete rende furiosi; in quei giorni ci accompagnava di giorno e di notte: di giorno, nel cantiere, il cui ordine (a noi nemico, ma era pur sempre un ordine, un luogo di cose logiche e certe) si era trasformato in un caos di opere frantumate; di notte, nelle baracche prive di ventilazione, a boccheggiare nell’aria cento volte respirata.

L’angolo di cantina che mi era stato assegnato dal Kapo perché ne sgombrassi le macerie era attiguo ad un vasto locale occupato da impianti chimici in corso di installazione ma già danneggiati dalle bombe. Lungo il muro, verticale, c’era un tubo da due pollici, che terminava con un rubinetto poco sopra il pavimento. Un tubo d’acqua? Provai ad aprirlo, ero solo, nessuno mi vedeva. Era bloccato, ma usando un sasso come martello riuscii a smuoverlo di qualche millimetro. Ne uscirono gocce, non avevano odore, ne raccolsi sulle dita: sembrava proprio acqua. Non avevo recipienti; le gocce uscivano lente, senza pressione: il tubo doveva essere pieno solo fino a metà, forse meno. Mi sdraiai a terra con la bocca sotto il rubinetto, senza tentare di aprirlo di più: era acqua tiepida per il sole, insipida, forse distillata o di condensazione; ad ogni modo, una delizia.

Quant’acqua può contenere un tubo da due pollici per un’altezza di un metro o due? Un litro, forse neanche. Potevo berla tutta subito, sarebbe stata la via più sicura. O lasciarne un po’ per l’indomani. O dividerla a metà con Alberto. O rivelare il segreto a tutta la squadra.

Scelsi la terza alternativa, quella dell’egoismo esteso a chi ti è più vicino, che un mio amico in tempi lontani ha appropriatamente chiamato nosismo. Bevemmo tutta quell’acqua, a piccoli sorsi avari, alternandoci sotto il rubinetto, noi due soli. Di nascosto; ma nella marcia di ritorno al campo mi trovai accanto a Daniele, tutto grigio di polvere di cemento, che aveva le labbra spaccate e gli occhi lucidi, e mi sentii colpevole. Scambiai un’occhiata con Alberto, ci comprendemmo a volo, e sperammo che nessuno ci avesse visti. Ma Daniele ci aveva intravisti in quella strana posizione, supini accanto al muro in mezzo ai calcinacci, ed aveva sospettato qualcosa, e poi aveva indovinato.

Me lo disse con durezza, molti mesi dopo, in Russia Bianca, a liberazione avvenuta: perché voi due sì e io no? Era il codice morale civile che risorgeva, quello stesso per cui a me uomo oggi libero appare raggelante la condanna a morte del Kapo picchiatore, decisa e compiuta senza appello, in silenzio, con un colpo di gomma da cancellare. E’ giustificata o no la vergogna del poi? Non sono riuscito a stabilirlo allora, e neppure oggi ci riesco, ma la vergogna c’era e c’è, concreta, pesante, perenne. Daniele adesso è morto, ma nei nostri incontri di reduci, fraterni, affettuosi, il velo di quell’atto mancato, di quel bicchier d’acqua non condiviso, stava fra noi, trasparente, non espresso, ma percepibile e costoso.

Cambiare codice morale è sempre costoso: lo sanno tutti gli eretici, gli apostati e i dissidenti. Non siamo più capaci di giudicare il comportamento nostro o altrui, tenuto allora sotto il codice di allora, in base al codice di oggi; ma mi pare giusta la collera che ci invade quando vediamo che qualcuno degli altri si sente autorizzato a giudicare noi apostati, o meglio riconvertiti.

P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, pp. 59-62

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