Vergogna e sensi di colpa

Strategie per sopravvivere
Auschwitz, 1944. I tavolini presso i quali avveniva la procedura di tatuaggio del numero di matricola sul braccio sinistro. La procedura in sé non era dolorosa, ma comunque molto umiliante, in quanto l’individuo perdeva il proprio nome ed era trasformato in un pezzo numerato.Secondo Primo Levi, Bruno Bettelheim (internato nel 1938-1939, prima a Dachau e poi a Buchenwald) ed altri intellettuali ex-deportati che hanno riflettuto sulla loro esperienza, le strategie di sopravvivenza attivate erano molteplici. Tutti insistono sulla necessità di cambiare al più presto il proprio codice morale; tuttavia, rilevano pure la necessità di porsi un preciso limite, oltre il quale si sprofondava nella zona grigia, si diventava complici dei carnefici e si pagava dunque ad un prezzo eccessivamente alto la propria sopravvivenza.

In altri casi, risultò determinante la capacità di mantenere dei microcosmi di solidarietà , dando vita a quel particolare fenomeno che è stato definito nosismo. Quest’ultimo è un egoismo allargato ad un’altra persona o ad un piccolo circolo. Si crea così un noi, un piccolo gruppo di persone che è chiuso all’esterno, ma che al suo interno mantiene le normali regole di solidarietà. Il codice morale cambia (e questo aumenta, in un ambiente spietato come il lager, le probabilità di sopravvivenza), ma nel contempo l’individuo non spegne del tutto la propria solidarietà nei confronti degli altri, coltivata in una specie di nicchia e di serra.

Il problema del suicidio

Levi ha sottolineato più volte che, durante la permanenza in lager, il numero dei suicidi fu molto basso. Gli stessi musulmani, in realtà, nella maggior parte dei casi morirono stremati, o furono uccisi, ma non si diedero la morte. “Il suicidio – scrive Levi – è dell’uomo e non dell’animale, è cioè un atto meditato, una scelta non istintiva, non naturale; ed in Lager c’erano poche occasioni di scegliere, si viveva appunto come gli animali asserviti, che a volte si lasciano morire, ma non si uccidono”.

I suicidi aumentarono bruscamente nel periodo successivo alla liberazione, in quanto molti ex-prigionieri furono travolti dai sensi di colpa e dalla vergogna.

Tutti, per sopravvivere, avevano commesso piccole o grandi infrazioni morali. Guardate nell’ottica della realtà del lager erano compromessi inevitabili, indispensabili per sopravvivere. Una volta tornata la normalità, però, molti ex-prigionieri valutarono quelle azioni (prime fra tutte le omissioni di solidarietà nei confronti di compagni in difficoltà) con il metro della moralità ordinaria, valida fuori del lager. A quel punto, la vergogna e il senso di colpa li sommersero e li travolsero: semplicemente si sentirono indegni di continuare a vivere.

In altri casi, la vergogna ha impedito all’individuo sopravvissuto di raccontare la sua esperienza, per timore di essere giudicato o disprezzato, col risultato che – con la significativa eccezione di Levi – la maggior parte delle testimonianze è stata resa pubblica con molti decenni di ritardo.

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