La partenza da Fossoli

Primo Levi era stato arrestato il 13 dicembre del 1943, dalla Milizia fascista, come partigiano; ma poiché aveva dichiarato di essere “cittadino italiano di razza ebraica”, fu inviato nel campo di smistamento vicino a Carpi, in cui arrivò alla fine di gennaio. La scena seguente è ambientata a Fossoli, il 21 febbraio 1944. L’accento è posto sull’umanità di coloro che, ormai condannati, stanno per partire. Ma su tutti, persino su coloro che pregano, si staglia il profilo delle donne, lucide fino all’ultimo e tutte prese dalla propria responsabilità di madri, che non permette loro di pensare a se stesse, ma solo ai bambini. Per quello che riguarda i tedeschi, invece, la semplice domanda: Quanti pezzi? è di una eloquenza formidabile. In questa espressione si specchia il nocciolo essenziale del nazionalsocialismo, il suo guardare a una parte dell’umanità come a feccia, a cose, a strumenti, a oggetti.

Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati.

Soltanto una minoranza di ingenui e di illusi si ostinò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi profughi polacchi e croati, e sapevamo che cosa voleva dire partire. [...]

Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare. [...]

L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria.

Con la assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine, - Wieviel Stück? – domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto, e rispose che i pezzi erano seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere qualcuno senza collera?

I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro ci siamo noi.

P.Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 13-16

Azioni sul documento