Il lager, suprema espressione del razzismo nazista

Lo storico tedesco-americano G.L. Mosse ha proposto di leggere l’ideologia nazista come una specie di profezia che si realizza da sola. Nel modo di comportarsi dei prigionieri (spesso costretti ad abbandonare il codice morale valido fuori del lager, se volevano sopravvivere) i nazisti videro il vero nocciolo del comportamento ebraico, e quindi si sentirono legittimati nella loro azione di sterminio.

Nei campi si fecero dei tentativi di tradurre in realtà i miti sullo stereotipo ebraico. Proprio come Hitler che prima aveva aperto le ostilità e poi aveva detto “guarda cosa gli ebrei hanno fatto per distruggerci”, così anche nei campi prima le condizioni della vita furono portate al livello della mera sopravvivenza e poi i nazisti poterono esclamare: “guardate gli ebrei; avevamo ragione noi a dire che sono privi di ogni moralità umana”.

Gli studi sulle condizioni nei vari campi hanno dimostrato che le SS incoraggiavano la corruzione con il favoritismo, la discrezionalità nella distribuzione delle scarse razioni alimentari e un costante sistema di terrore. Uomini e donne furono trasformati in individui costretti a fare qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Le SS divennero maestri nel mettere gli internati gli uni contro gli altri. Si pretendeva che quei prigionieri cui erano state affidate funzioni di comando eseguissero una certa quantità di lavoro quotidiano ordinata loro dalle guardie e costringessero gli altri a lavorare duramente per raggiungere questo scopo. Al kapo, come era chiamato il prigioniero che aveva tali funzioni, era permesso di picchiare a volontà i suoi compagni internati. I campi, isolati dal mondo esterno, divennero piccoli regni governati dal terrore, dalla corruzione e dalle divisioni, e così fu facile sorvegliarli con pochi uomini. Ma si fece uso anche del fattore psicologico. Gli ebrei erano apparentemente spogliati della loro umanità e agli occhi delle SS divennero gente disposta a frodare, rubare, cercare di cattivarsi [= ottenere - n.d.r.] i favori e tradire gli altri. Questa trasformazione del mito in realtà non ha migliore testimone del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss.

Höss [nelle sue memorie, scritte dopo la guerra, in prigione - n.d.r.] ha paragonato il proprio comportamento morale quando agli inizi degli anni '20 era stato in carcere per un assassinio della Fehme (cioè un omicidio per vendetta politica), con quello degli ebrei posti sotto la sua autorità. Egli li accusava di agire in modo “tipicamente ebraico”, evitando il lavoro ogni volta fosse possibile, corrompendo gli altri perché lavorassero al loro posto, e azzuffandosi tra loro in una selvaggia gara per quei privilegi e beni che avrebbero permesso di condurre una vita comoda e da parassiti. Ancora una volta gli ebrei erano accusati di improduttività, di aborrire il lavoro onesto e di corrompere la società.

Persino al cospetto della forca già preparata per lui allorché in Polonia dopo la guerra scriveva le sue memorie, Höss non seppe decidersi di ammettere la propria responsabilità nel comportamento delle sue vittime e di confessare che le condizioni deliberatamente create nei campi miravano a trasformare lo stereotipo in una profezia autorealizzantesi. Non sorprende che Höss credesse che gli ebrei, in quanto nemici del Reich, fossero i responsabili della loro stessa distruzione. Per uomini che come lui parteciparono alla soluzione finale, il mito sugli ebrei divenne veramente realtà grazie al potere di cui i tedeschi seppero fare buon uso. Höss non volle ammettere - e forse lo ignorava - che decine di migliaia di ebrei resistettero attivamente al sistema creato dalle SS e che centinaia di migliaia conservarono la loro dignità nelle più inaudite circostanze.

G. L. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all'olocausto, Bari, Laterza, 1985, pp. 238-239. Traduzione di L. De Felice

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