Il giudizio di Rudolf Höss sui detenuti ebrei

Come nel caso dei prigionieri russi (considerati dai nazisti degli esseri inferiori, subumani) anche quando descrive il modo di agire dei prigionieri ebrei il comandante di Auschwitz Rudolf Höss trova una conferma al proprio pregiudizio, senza mai prendere in considerazione il fatto che il comportamento immorale dei detenuti fosse provocato dal sistema di funzionamento del campo da lui stesso diretto.

Ho già illustrato nelle pagine precedenti quale influenza abbiano sui compagni di prigionia i prigionieri con incarichi di comando; tale influenza è particolarmente accentuata nella vita di un campo. Nelle masse sterminate di prigionieri di Auschwitz-Birkenau, era addirittura un fattore di importanza decisiva.

Si sarebbe potuto credere che la sorte comune, le comuni sofferenze, dovessero condurre ad una solidarietà calda e indistruttibile, ad una solida cooperazione. Niente di più errato! Non vi è luogo dove il più crudo egoismo si manifesti con tanta evidenza come in prigione. E quanto più è dura la vita, tanto più evidente si mostra l’egoismo, sotto l’impulso dello spirito di conservazione. Perfino quelle nature che nella vita comune, di fuori, sono sempre state buone e compassionevoli, nella durezza della prigionia possono indursi a tiranneggiare senza misericordia i compagni di sventura, se questo serve a rendere un po’ più tollerabile la loro vita. Quanto più disumano era poi il comportamento degli individui già freddi ed egoisti di per sé, anzi addirittura volti al crimine, come ignoravano inesorabilmente le miserie dei loro simili, di fronte alla minima prospettiva di vantaggi! […]

Ma perché i kapos, i prigionieri con funzioni direttive, trattano così i loro simili, i loro compagni di sventura? Perché vogliono mettere in buona luce se stessi presso i guardiani e i sorveglianti del medesimo tipo, dimostrare quanto sono diligenti. Per ottenere dei privilegi, per poter vivere meglio nel campo. Ma tutto ciò sempre a spese dei compagni di prigionia.

Soltanto in prigione il vero Adamo appare con tanta evidenza; tutto ciò che il prigioniero ha appreso mediante l’educazione e l’imitazione, tutto ciò che non fa parte della sua stessa natura, scompare. A lungo andare, la prigionia lo costringe a lasciar cadere ogni simulazione e ogni mascheramento. L’uomo allora si presenta nudo, qual è in realtà: buono o cattivo.

Fin dalla costituzione dei campi di concentramento, questi avevano contenuto prigionieri ebrei. Ormai li conoscevo abbastanza, fin dai tempi di Dachau. […] Non era facile a Dachau la vita per gli ebrei. Erano addetti al lavoro nelle cave di pietra, assai gravoso per loro; la sorveglianza esercitata nei loro confronti era particolarmente rigorosa, per influenza di Himmler e dello Stürmer, che veniva diffuso dappertutto, nelle caserme e nelle osterie. […] Ma le persecuzioni più gravi erano dovute ai loro stessi compagni di razza, sia che fossero loro superiori nel lavoro, sia che fossero gli anziani di baracca. In questo si distinse soprattutto il loro anziano di blocco, Eschen. Più tardi questi si impiccò, perché, coinvolto in un affare tra omosessuali, temette di dover subire una pena. Costui li tormentava non soltanto fisicamente, con ogni sorta di vessazioni, ma soprattutto psichicamente. Li opprimeva di continuo, li induceva a trasgredire gli ordinamenti del campo e poi faceva rapporto, li aizzava ad atti di violenza gli uni contro gli altri, o addirittura contro i kapos, in modo da avere un motivo per fare rapporto e farli punire. Questi rapporti, poi, non venivano consegnati, ma tenuti in sospeso come una minaccia perenne e quindi uno strumento di oppressione. Era davvero l'incarnazione del male. Verso i militi delle SS si mostrava di uno zelo addirittura ripugnante, mentre era disposto a qualsiasi crimine verso i suoi compagni di prigionia e di razza. Più volte fui sul punto di sostituirlo, ma non mi fu mai possibile; lo stesso Eicke [comandante di Dachau dalla fine del 1933 e poi, dopo il 30 giugno 1934, ispettore capo dei campi – n.d.r.] vegliava a che fosse mantenuto al suo posto. […]

Venne poi la notte di cristallo, deliberata da Goebbels nel novembre 1938, in segno di rappresaglia per l’uccisione di von Rath a Parigi ad opera di un ebreo; per tutto il Reich i negozi degli ebrei furono devastati, come minimo si fracassarono le vetrine e si proibì ai pompieri di intervenire a domare gli incendi delle sinagoghe, che erano sorti dovunque. Per proteggerlidall’ira del popolo, tutti gli ebrei che ancora operavano nell’industria, nel commercio, negli affari in genere, vennero arrestati e portati nei campi di concentramento come ebrei in custodia protettiva. Fu così che potei conoscerli in massa. Fino ad allora, Sachsenhausen era stata immune dagli ebrei: ora, d’improvviso, una vera invasione semita. Fino ad allora, la corruzione a Sachsenhausen era sconosciuta; ora si manifestò in tutte le forme, in tutti i campi. Per i verdi (i criminali), gli ebrei erano un oggetto di sfruttamento, e per questo il loro arrivo fu salutato con gioia. Si dovette confiscare il denaro di questi ebrei, per evitare che nel campo si diffondesse uno stato di caos inarrestabile.

Gli ebrei cercavano di danneggiarsi l’un l’altro come potevano; ciascuno cercava di conquistare per sé un posticino; anzi, con la corruzione di qualche kapo compiacente, inventavano sempre nuovi posti per potersi sottrarre al lavoro. Per ottenere un incarico comodo, non esitavano ad allontanarne gli altri prigionieri mediante false accuse. Se riuscivano a diventare qualcuno, allora vessavano e calpestavano senza alcuna pietà i correligionari, superando sotto ogni aspetto i verdi.

In quel periodo, parecchi ebrei mossi dalla disperazione per questo stato di cose, per trovar pace ai tormenti, si gettarono contro i fili elettrici del recinto, intrapresero tentativi di fuga per farsi sparare addosso, si impiccarono. La risposta di Eicke, quando il comandante gli fece il suo rapporto su quanto avveniva, fu: “Lasciate fare. Che gli ebrei si divorino pure a vicenda”.

R. Höss, Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, Torino, Einaudi, 1985, pp. 96-97 e 110-114. Traduzione di G. Panzieri Sajna. Prefazione di P. Levi

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