Il promemoria di Perlasca

Nel 1946, su richiesta di Jeno Lévai, il primo e principale studioso delle deportazioni dall’Ungheria, Giorgio Perlasca stese un Promemoria, in cui ricostruiva la propria attività di salvataggio, a Budapest, nel 1944. In un primo tempo, la sua azione fu sostenuta dall’ambasciatore spagnolo, che imitò Wallenberg e alloggiò numerosi ebrei in case poste sotto la protezione della Spagna. I problemi vennero quando il primo segretario Angel Sanz Briz lasciò l’Ungheria, in quanto il governo franchista non aveva riconosciuto il nuovo regime filonazista, instaurato dalle Croci frecciate (o Nyilas) il 16 ottobre 1944. Perlasca decise di restare a Budapest, spacciandosi per incaricato ufficiale dello Stato spagnolo. Grazie a questo rischioso stratagemma (se il suo inganno fosse stato scoperto, Perlasca sarebbe stato subito ucciso o deportato) poté continuare a proteggere gli ebrei delle case spagnole.

Alle ore 11 [del giorno 1 dicembre 1944 – n.d.r.] entrando nello stabile di Légrády Károly ut. 33 mi accorsi c’era occupato dalla polizia e che i protetti, uomini, donne e bambini, erano con i bagagli pronti. Fui informato che la casa doveva essere completamente evacuata. Raggiunsi di corsa al quinto piano l’ufficiale che comandava l’operazione: era costui un giovane tenente dall’aspetto volgare con il quale avevo già avuto un incidente. Alle mie rimostranze disse che doveva portar via tutti i protetti per ordine superiore.

Gli feci osservare che il maggiore Tarpataky mi aveva poco prima assicurato che niente sarebbe stato fatto contro gli spagnoli; a lui questo non interessava. Allora dichiarai che in nome del governo spagnolo mi sarei opposto al prelevamento dei protetti; per arrestare i protetti spagnoli – aggiunsi – era necessario un ordine scritto del Ministero degli Affari Esteri con il quale la legazione si era in precedenza accordata.

Scesi poi al piano terra e chiusi la porta a chiave, mettendomici davanti. I protetti mi guardavano con fiducia, avevano smesso di piangere e li avevo fatti rientrare negli appartamenti; la polizia era interdetta. Intanto passavano per la strada quelli del n. 25, razziati e diretti al Parco; mi vedevano attraverso il grande portone di vetro e mi chiamavano disperatamente. Inoltre vedevo che nella casa di fronte, n. 44, pure spagnola, stavano penetrando polizia e Nyilas. Intanto l’ufficiale non sapeva cosa fare; infine mi propose di andare assieme nel Parco dalle autorità che sovrintendevano alla razzia. Mi incontrai con Tarpataky e alcuni pezzi grossi nyilas, da essi seppi che il Ministero degli Interni aveva dato, poco prima, l’ordine di deportare tutti gli ebrei protetti dalla Spagna in quanto si riteneva che Sanz Briz fosse scappato e i rapporti diplomatici fra i due paesi rotti.

Non mi aspettavo una simile accusa così presto; comunque mi apparve subito chiaro che la legazione non avrebbe più potuto funzionare senza un capo responsabile. Cercare di trovare giustificazioni sulla partenza di Sanz Briz non avrebbe portato ad altro che a inutili discussioni che non avrebbero impedito l’annientamento dell’organizzazione di protezione. Pertanto non esitai a dichiarare che la notizia della fuga di Sanz Briz era falsa e messa in giro da qualche malintenzionato; l’incaricato d’affari, con l’occasione del suo trasferimento nella zona di Sopron, aveva deciso di fare un viaggio in Svizzera per consultarsi con i ministri spagnoli a Berna e a Berlino e per avere occasione di parlare a mezzo telefono con Madrid, cosa che in quel momento era impossibile da Budapest, e sarebbe stato di ritorno in due settimane. Del resto, affermai, il Ministero degli Affari Esteri era a conoscenza di questo viaggio in quanto Sanz Biz aveva avvisato i funzionari competenti; e qui feci alcuni nomi fra i quali il barone Ruvido Zichy e il dottor Halt che il giorno prima si erano rifugiati rispettivamente alla legazione di Svizzera e alla nostra legazione. Intanto tutti i poteri e le prerogative erano stati assunti da me quale funzionario permanente della legazione e feci vedere la tessera diplomatica rilasciata dal Ministero degli Esteri ungherese che mi qualificava segretario di legazione. Aggiunsi che i rapporti fra l’Ungheria e la Spagna non erano mutati in quanto questi non erano basati su persone ma su istituti, quali il governo ungherese e il governo spagnolo, il quale era rappresentato a Budapest dalla sua legazione sempre aperta e funzionante.

Il tono di meravigliato risentimento con il quale andavo raccontando queste e altre frottole impressionò i miei interlocutori e ne approfittai subito per proporre che qualcuno telefonasse al Ministero degli Interni e al Ministero degli Esteri; un funzionario nyilas si prese l’incarico e poco dopo ritornò con la notizia che ambedue i ministeri avevano disposto la sospensione per alcuni giorni della razzia contro gli ebrei spagnoli e faceva inoltre osservare che il governo ungherese aveva concesso che la Spagna proteggesse soltanto 300 ebrei mentre constava che ne avevamo già 3000; risposi che la legazione di Spagna non aveva mai accettato simile limitazione e che sull’argomento avevo già informato per iscritto il governo ungherese il quale non aveva ancora risposto; dunque chi tace acconsente e noi eravamo a posto. Un alto funzionario nyilas disse ridendo che con gli spagnoli non si può mai spuntarla e rimanemmo d’accordo che in quei giorni di sosta avrei sistemato ogni cosa con il ministero degli Esteri. Tarpataky di buon grado mi restituì tutti i protetti di Légrády Károly ut. 25 e mandò ordine a tutta la polizia e funzionari nyilas di lasciare in pace gli spagnoli.

Più tardi mi accorsi che un piccolo gruppo della casa n. 33, della suddetta strada era stato prelevato prima ch’io arrivassi e riuscii a rintracciare anche quello, degno di nota che in quel gruppo si trovava anche l’avvocato Bárta che nel giro di pochi giorni recuperavo per la terza volta.

Ormai il dado era tratto e ritornai in legazione pensando al da farsi. Anche in legazione trovai gente preoccupata e rassegnata al peggio; volevano che io andassi alle case protette perché alcune telefonate chiedenti aiuto erano giunte un paio d’ore prima. Rassicurai che tutto era stato sistemato e che tutto si sarebbe svolto come prima; mi credevano poco.

G. Perlasca, L’impostore, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 24-26

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