Ai confini dello spirito

08.10.2012

La questione di fondo potrebbe essere riassunta nel modo seguente: la cultura e il sostrato intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio al prigioniero del campo? L’hanno aiutato a resistere? Quando mi posi questa domanda, dapprima non pensai alla mia esistenza quotidiana ad Auschwitz, ma al bel libro di un amico e compagno di sventura olandese, lo scrittore Nico Rost, intitolato Goethe in Dachau. Lo ripresi in mano dopo molti anni e vi ritrovai alcune considerazioni che mi parvero quasi irreali. Lessi ad esempio: “Questa mattina avrei voluto riprendere in mano i miei appunti sull’Hyperion”. Oppure: “Letto nuovamente su Maimonide, del suo influsso su Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto”. E ancora: “Oggi durante l’allarme aereo mi sono sforzato di nuovo di pensare a Herder…”. E infine, con mia grande sorpresa: “Leggere ancora di più, studiare ancora di più e con maggiore intensità. In ogni minuto libero! La letteratura classica come surrogato ai pacchi della Croce Rossa”. Rileggendo queste frasi e confrontandole con i miei ricordi del campo, avvertii una profonda vergogna, non avendo io nulla da accostare alla condotta ammirevole di Nico Rost. […] Alla fine tuttavia riuscii a trovare qualche argomento a mia discolpa: non tanto la circostanza che Nico Rost lavorava in una posizione relativamente privilegiata come infermiere in una Krankenbaracke, mentre io facevo parte della massa anonima di prigionieri, quanto piuttosto il fatto decisivo che l’olandese si trovava a Dachau e non ad Auschwitz; e i due campi avevano in effetti poco in comune.

Dachau fu uno dei primi campi di concentramento nazionalsocialisti e aveva quindi, si vuole, una certa tradizione alle spalle. Auschwitz era invece stato creato solo nel 1940 e sino al termine fu soggetto a quotidiane improvvisazioni. A Dachau fra i detenuti prevaleva l’elemento politico, ad Auschwitz la stragrande maggioranza dei prigionieri era composta da ebrei apolitici e da polacchi politicamente assai instabili. A Dachau la gestione interna era in gran parte in mano ai prigionieri politici, ad Auschwitz dominavano i criminali comuni tedeschi. A Dachau esisteva una biblioteca del campo, ad Auschwitz per il prigioniero normale un libro era qualcosa di inimmaginabile. […]

Il pensiero analitico-razionale nel campo, e in specifico ad Auschwitz, non solo non era di alcun aiuto, ma anzi conduceva direttamente verso una tragica dialettica di autodistruzione. Qualche esempio chiarirà facilmente il mio pensiero. In primo luogo l’uomo dello spirito era più restio dei suoi compagni non intellettuali a prendere semplicemente atto di quelle inimmaginabili condizioni. L’antica abitudine a mettere in discussione i fenomeni della realtà quotidiana gli impediva la mera accettazione della realtà del Lager, poiché questa era in contrasto troppo stridente con tutto ciò che sino ad allora egli aveva considerato possibile e accettabile dall’uomo. In libertà aveva sempre frequentato persone disponibili all’argomentazione garbata e ragionevole e non riusciva in alcun modo a capire un dato assai semplice e cioè che nei suoi confronti, nei confronti del prigioniero, le SS impiegavano una logica dello sterminio che in sé operava con altrettanta coerenza quanto all’esterno la logica della conservazione della vita. Si doveva essere sempre ben rasati, ma era severamente proibito possedere gli strumenti necessari per radersi, e dal barbiere ci si andava solo ogni quindici giorni. Al vestito a righe non doveva mancare nemmeno un bottone, a rischio di una punizione, e tuttavia se lavorando se ne perdeva uno, il che era inevitabile, non vi era praticamente alcuna possibilità di sostituirlo. Si doveva essere in forze, e tuttavia si veniva sistematicamente indeboliti. All’ingresso nel Lager si veniva privati di tutto, e successivamente dileggiati dai depredatori perché non si possedeva niente. Il detenuto meno avvezzo alla riflessione di norma accettava questa situazione con una certa indifferenza, la medesima indifferenza che fuori, in constatazioni del tipo “ricchi e poveri ci sono sempre stati” oppure “le guerre ci saranno sempre”, aveva dato buona prova di sé. Prendeva atto delle circostanze, si adeguava e in casi favorevoli trionfava su di esse. L’intellettuale invece si ribellava nell’impotenza del pensiero. All’inizio per lui valeva una sorta di folle saggezza ribellistica secondo la quale certamente non può esistere ciò che non è lecito che esista. Solo all’inizio, tuttavia.

Il rifiuto della logica delle SS, la rivolta interiore, il ripetere gli scongiuri di rito (“ma non è possibile”), tutto ciò non durava a lungo. Dopo qualche tempo inevitabilmente s’imponeva qualcosa che andava oltre la semplice rassegnazione e che potremmo definire l’accettazione non solo della logica ma anche dei valori delle SS. E anche in questo caso il prigioniero intellettuale doveva affrontare maggiori difficoltà rispetto al suo compagno non intellettuale, per il quale non era mai esistita una logica umana generale, ma solo un coerente sistema di autoconservazione. Sì, fuori aveva affermato “ricchi e poveri ci sono sempre stati”, ma una volta preso atto della situazione, senza avvertire alcuna contraddizione egli aveva combattuto la guerra dei poveri contro i ricchi. Dal suo punto di vista, la logica del Lager non era altro che un’acutizzazione graduale della logica economica, alla quale reagiva con un’efficace mescolanza di rassegnazione e disponibilità alla difesa.

L’intellettuale invece, che dopo il crollo della sua prima resistenza interiore aveva riconosciuto come possa invece esistere ciò che non deve esistere, che sperimentava la logica delle SS come una realtà che andava rivelandosi istante dopo istante, nella riflessione procedeva ancora di qualche passo. Il fatto che fossero incontestabilmente più forti non legittimava forse i suoi aguzzini ad annientarlo? La sostanziale tolleranza spirituale e il sistematico dubitare tipici dell’intellettuale divenivano così fattori di autodistruzione. Sì, le SS potevano agire come agivano: non esiste alcun diritto naturale e le categorie morali vanno e vengono come le mode. Esisteva una Germania che conduceva alla morte ebrei e avversari politici, ritenendo di potersi realizzare solo in questo modo. Cos’altro si poteva aggiungere? La civiltà greca poggiava sulla schiavitù, e su Milo un esercito ateniese aveva infuriato come le SS in Ucraina. Immani erano stati, sin dove è possibile scandagliare le profondità della storia, i sacrifici umani, e l’eterno progresso dell’umanità altro non era che un’ingenuità del diciannovesimo secolo. “Links, zwei, drei, vier” [= sinistra, due, tre, quattro”, sono i comandi ricevuti dai prigionieri durante la marcia in colonna – n.d.r.] era un rituale come tanti altri. Vi era ben poco da dire contro le atrocità. […] Così è sempre andata, così va la storia. Si era finiti sotto le sue ruote e ci si toglieva il berretto quando passava un boia.

Una volta affievolitasi la prima resistenza, l’uomo dello spirito con il suo sapere e le sue analisi, aveva, per difendersi dagli aguzzini, meno strumenti del non intellettuale: pronto a scattare sull’attenti, e quindi maggiormente apprezzato, quest’ultimo, imboscandosi sistematicamente e rubando con grande destrezza, sapeva combattere con spontaneità e incisività ben maggiori del suo pensieroso compagno.

J. Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, pp. 34-36 e 41-43. Traduzione di E. Ganni

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