Intellettuale ad Auschwitz

Jean Améry e la tortura
Auschwitz, 2006. Quanto resta delle baracche in legno del campo di Birkenau, dopo la loro asportazione/distruzione subito dopo la fine della guerra.Nel 1966, Jean Améry pubblicò un importante saggio intitolato Intellettuale ad Auschwitz, basato sulla propria esperienza di deportato. Il nome Jean Améry era uno pseudonimo, assunto dall’ebreo austriaco Hans Mayer, che nacque a Vienna nel 1912 e morì suicida a Salisburgo nel 1978. Quando i nazisti occuparono l’Austria (1938), l’autore emigrò in Belgio; subito dopo la grande vittoria nazista a Occidente (primavera 1940), Mayer si unì al movimento di resistenza, assumendo il falso nome di Jean Améry. Arrestato nel 1943, fu internato per un anno ad Auschwitz III-Monowitz (lo stesso campo di Primo Levi).

Alcune delle riflessioni più acute di Améry riguardano l’arresto e i primi interrogatori, o meglio la violenza inflittagli dagli uomini della Gestapo, per estorcere informazioni. Secondo Améry, questa “violazione del confine del mio Io da parte dell'Altro, violazione che non può essere neutralizzata dalla speranza di soccorso, né corretta difendendosi”, fa sì che il “farsi carne dell'uomo” divenga completo: “fiaccato dalla violenza, privato di ogni speranza di soccorso, impossibilitato a difendersi, il torturato nel suo urlo di dolore è solo corpo, nient'altro”.

Questa tortura finalizzata, tipica dei regimi autoritari o totalitari, è molto diversa da quella che fu esercitata fino al Settecento - in sede di istruttoria giudiziaria – dai funzionari dell’Inquisizione o della maggior parte dei tribunali statali. Questi erano obbligati a seguire determinate regole e codici di comportamento: la tortura era una specie di ordalia, in cui il tempo e le modalità della sofferenza inflitta all'individuo sospettato di un crimine erano rigorosamente definiti. Se l’imputato (con l’aiuto di Dio, si pensava) sosteneva la prova, era salvo, aveva vinto, in quanto il rigoroso esame non era ripetibile. La tortura moderna invece è infinita, illimitata e, in virtù del completo asservimento in cui pone la persona (ridotta a puro corpo sanguinante), totalitaria come gli Stati che l’utilizzano come strumento di dominio.
La prima percossa e lo sgomento

Secondo Améry, l’evento veramente traumatico è la prima percossa: a seguito di questa prima violenza, l’individuo perde “la fiducia nel mondo”, cioè “la certezza che l’altro, sulla scorta di contratti sociali scritti e non, avrà riguardo di me” e “rispetterà la mia sostanza fisica e metafisica”. La prima percossa spiazza totalmente l’individuo e lo obbliga a ridefinire completamente la propria relazione con l’umanità. E’ questo shock che spesso, ad Auschwitz, molti intellettuali non riuscirono a sopportare.

Certamente, vanno presi in considerazione vari altri fattori: la fame, il freddo, la scarsa abitudine al lavoro manuale… Tuttavia, secondo Améry, un ruolo decisivo nel collasso psichico (oltre che fisico) di molti uomini dello spirito fu svolto dallo sgomento. Quanto vedeva e sperimentava sulla sua pelle era completamente diverso da tutto ciò che dell’essere umano l’intellettuale aveva per anni pensato, creduto e, spesso, insegnato.

In genere, secondo Améry, furono avvantaggiati coloro che avevano una salda fede religiosa o politica (innanzi tutto, i comunisti). Per loro, la sofferenza che subivano in lager aveva un senso (era la conseguenza del peccato umano o dell’ingiusto ordine sociale capitalista), mentre la speranza in una vittoria finale della giusta causa li sosteneva. Gli intellettuali (ebrei e non) che credevano invece solo nella ragione, negli ideali dell’illuminismo e nel concetto di progresso del genere umano rimasero paralizzati e schiacciati dalla potenza della violenza di cui erano vittime.

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