Gli ebrei greci ad Auschwitz
La Borsa è attivissima sempre. Benché ogni scambio (anzi, ogni forma di possesso) sia esplicitamente proibito, e benché frequenti rastrellamenti di Kapos o Blockälteste [= anziani del blocco, cioè kapos responsabili di una baracca – n.d.r.] travolgano a intervalli in un’unica fuga mercanti, clienti e curiosi, tuttavia, nell’angolo nord-est del Lager (significativamente, l’angolo più lontano dalle baracche delle SS), non appena le squadre sono rientrate dal lavoro, siede in permanenza un assembramento tumultuoso, all’aperto d’estate, dentro un lavatoio d’inverno […]
Ciascuno nel suo angolo consueto, stazionano in Borsa i mercanti di professione; primi fra questi i greci, immobili e silenziosi come sfingi, accovacciati a terra dietro alle gamelle di zuppa densa, frutto del loro lavoro, delle loro combinazioni e della loro solidarietà nazionale. I greci sono ormai ridotti a pochissimi, ma hanno portato un contributo di prim’ordine alla fisionomia del campo, ed al gergo internazionale che vi circola. Tutti sanno che la caravana è la gamella, e che la comodera es buena vuol dire che la zuppa è buona; il vocabolo che esprime l’idea generica di furto è klepsi-klepsi, di evidente origine greca.
Questi pochi superstiti della colonia ebraica di Salonicco, dal duplice linguaggio, spagnolo ed ellenico, e dalle molteplici attività, sono i depositari di una concreta, terrena, consapevole saggezza in cui confluiscono le tradizioni di tutte le civiltà mediterranee. Che questa saggezza si risolva in campo con la pratica sistematica e scientifica del furto e dell’assalto alle cariche, e con il monopolio della Borsa dei baratti, non deve far dimenticare che la loro ripugnanza dalla brutalità gratuita, la loro stupefacente coscienza del sussistere di una almeno potenziale dignità umana, facevano dei greci in Lager il nucleo nazionale più coerente, e, sotto questi aspetti, più civile.
P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 97-99