La procedura di selezione sulla Judenrampe

La seguente dichiarazione fu rilasciata da Max Mannheimer. Nato nel 1920 in Cecoslovacchia, Mannheimer fu dapprima internato a Theresienstadt, poi deportato ad Auschwitz (2 febbraio 1943). Il meccanismo di funzionamento di Auschwitz fu costantemente in evoluzione. In un primo tempo (marzo 1942-maggio 1944) gli ebrei sbarcarono sulla cosiddetta Judenrampe, una diramazione ferroviaria costruita a poca distanza dalla stazione principale. Solo dal maggio 1944 entrò in funzione la nuova rampa ferroviaria, che conduceva all’interno stesso del lager di Birkenau. Le selezioni erano di competenza degli ufficiali medici (ma l’ufficiale qui descritto in azione di sicuro non è Mengele, che arrivò ad Auschwitz solo il 30 maggio 1943). L’esame degli abili al lavoro, nel 1944, divenne ancora più sommario, col risultato che, spesso, più dell’80% di un intero convoglio finiva alle camere a gas.

Auschwitz-Birkenau, banchina della morte, mezzanotte del 1° febbraio 1943. Scendere tutti!

Lasciare tutto! E’ il panico generale. Ognuno cerca di mettersi in tasca tutto quello che può. Le SS urlano: Muoversi! Forza, alla svelta. Ci s’infila ancora una camicia. Un altro pullover. Sigarette. Magari possono servire come oggetto di scambio.

Uomini da una parte, donne dall’altra con i bambini sugli autocarri, sui quali possono salire anche gli uomini e le donne che non sono in grado di andare a piedi. Sono in molti a presentarsi. Il resto viene messo in fila per cinque. Una donna cerca di avvicinarsi a noi. Forse vuole parlare a suo marito o a suo figlio. Un soldato delle SS la scaraventa a terra con un bastone. La colpisce alla gola. Resta a terra immobile. Viene trascinata via. E’ questo l’impiego di manodopera?

Davanti a noi c’è un ufficiale delle SS. E’ un tenente. Così viene chiamato da una sentinella. Forse è un medico. Non ha il camice. Né lo stetoscopio. E’ in uniforme verde. Con il teschio. Avanziamo uno alla volta. La sua voce è calma. Anche troppo. Ci chiede l’età, il mestiere, se siamo sani. Ci fa mostrare le mani. Riesco a sentire alcune risposte.

Meccanico – a sinistra. Amministratore – a destra. Medico – a sinistra. Operaio – a sinistra. Magazziniere della ditta Bata – a destra. E’ un nostro conoscente. Si chiama Büchler, ed è Bojkowitz. Falegname – a sinistra. Poi tocca a mio padre. Manovale. Stessa direzione dell’amministratore e del magazziniere. Ha cinquantacinque anni. Forse è per questo motivo.

Poi è il mio turno. Ho ventitré anni, sono sano, lavoro in un’impresa di costruzioni stradali. Ho i calli alle mani. Ottima cosa, i calli alle mani. Mio fratello Ernst: vent’anni, installatore – a sinistra. Cerco con gli occhi mia madre, mia moglie, mia sorella, mia cognata. Impossibile. Molti autocarri sono partiti.

Rimettersi in riga per tre. Una sentinella delle SS ci chiede sigarette cecoslovacche. Gliene do alcune. Risponde alle mie domande. I bambini vanno negli asili. Gli uomini possono far visita alle loro mogli la domenica. Soltanto la domenica? Basta e avanza! Vi deve bastare.

In marcia. Su una strada stretta. Vediamo un piazzale illuminato a giorno. In piena guerra. Niente oscuramento. Torrette di guardia con mitragliatrici. Doppio filo spinato, riflettore, baracche. Soldati SS aprono una porta. La attraversiamo. Siamo a Birkenau. Restiamo fermi dieci minuti davanti a una baracca. Poi ci fanno entrare. Di un convoglio di mille persone tra uomini, donne e bambini, siamo rimasti ormai in 155, tutti uomini.

W. Benz, L’Olocausto, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 106-107. Traduzione di E. Grillo

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