Una procedura industriale

Nel suo grandioso romanzo Vita e destino, lo scrittore ebreo russo Vasilij Grossman ha espresso in modo particolarmente chiaro la standardizzazione industriale che fu raggiunta nel processo di sterminio attuato ad Auschwitz II-Birkenau. Il brano seguente descrive un impianto industriale, che l’ufficiale nazista Liss è stato chiamato a ispezionare. In realtà, la fabbrica è solo una metafora: dietro ogni elemento apparentemente meccanico menzionato, Grossmann indica in realtà una fase del meccanismo di eliminazione, dall’ingresso del convoglio ferroviario nel campo fino alla completa distruzione dei cadaveri.

In direzione dello spiazzo del cantiere si snodavano delle rotaie che lo collegavano direttamente con la ferrovia principale. In prossimità della ferrovia erano dislocati i depositi. Fu proprio da essi che ebbe inizio l’ispezione dell’ufficiale.

Sotto la tettoia si svolgeva la prima cernita del carico: elementi staccati dei vari meccanismi, griglie e pezzi ancora da montare di dispositivi a rullo e a catena, tubi di diverso diametro, gallerie, congegni per la ventilazione, trituratori sferici per le ossa, strumenti di controllo, misuratori di gas ed elettricità ancora da inserire nel quadro, matasse di cavi, cemento, carrelli automatici ribaltabili, cataste di rotaie e di mobili da ufficio.

In locali speciali, guardati da pattuglie di SS, con una quantità di dispositivi aspiranti e di ventilatori dal rumore smorzato, era situato il deposito della produzione che cominciava ad arrivare dallo stabilimento chimico: bombole dotate di valvole rosse e contenitori da quindici chili con etichette rosso-azzurre, che da lontano sembravano barattoli di marmellata bulgara.

Uscendo da questo luogo per metà interrato, Liss e i suoi accompagnatori si incontrarono col capo progettista del complesso industriale, professor Stahlgang, appena sceno dal treno proveniente da Berlino, e col superiore dei lavori, ingegnere von Reineke, un uomo enorme che indossava una giacca di pelle gialla.

Stahlgang respirava col rantolo, l’aria umida gli aveva provocato un attacco d’asma. Gli ingegneri che lo circondavano cominciarono a rimproverarlo di non avere riguardo di se stesso: tutti sapevano che il catalogo delle opere di Stahlgang trovava posto nella biblioteca personale di Hitler.

Il sito non si differenziava in niente dai soliti ciclopici cantieri della metà del XX secolo. Attorno agli scavi stagnavano i fischi delle sentinelle, lo stridio delle scavatrici e delle gru, il barrito delle locomotive.

Liss e il suo seguito si avvicinarono ad un edificio quadrato, grigio, senza finestre. Il complesso di quei fabbricati industriali, dei forni di mattoni bianchi, delle ciminiere dalla bocca larga, delle torri e torrette del comando di difesa con le calotte di vetro, tutto tendeva verso questo edificio grigio, cieco e senza volto.

Gli operai stavano terminando di asfaltare le stradine di collegamento e da sotto i rulli si levava un fumo grigio, bollente, che si perdeva tra la nebbia livida e gelata. Reineke informò Liss che la verifica dell’ermeticità dell’Unità speciale non era stata soddisfacente. Stahlgang, concitato, rauco, dimenticando la sua asma, esponeva al funzionario la concezione architettonica del nuovo impianto.

In contrasto con l’apparente semplicità e le ridotte dimensioni d’ingombro, l’idroturbina industriale tradizionale sviluppa una concentrazione enorme di energia, massa e velocità, e mulinando, la potenza geologica dell’acqua si converte in lavoro.

Anche quell’impianto era costruito secondo il principio della turbina. Esso trasformava la vita e tutte le forme di energia che le sono connesse in materia inorganica. Questa turbina di nuovo tipo doveva vincere la forza psichica, nervosa, respiratoria, cardiaca, mentale e sanguigna. Il nuovo impianto riuniva i principi della turbina, del mattatoio e dell’inceneritore. Occorreva fondere tutte queste specializzazioni in una semplice soluzione architettonica.

“Il nostro amato Hitler” disse Stahlgang “com’è noto, quando visita i complessi industriali più banali, tiene sempre conto anche della struttura architettonica”.

Quindi abbassò la voce in modo che potesse sentire solo Liss. “Lei certamente saprà che le divagazioni misticheggianti della struttura architettonica dei lager nei pressi di Varsavia, han provocato non pochi dispiaceri al Reichsführer. Bisognava tenerne conto”.

All’interno l’aspetto della camera di cemento era perfettamente rispondente all’età industriale delle grandi masse e velocità. La vita che fluiva nei canali adduttori come acqua, non poteva più fermarsi né scorrere al contrario; la velocità del suo movimento lungo il corridoio di cemento era stata tradotta in formule, analoghe a quelle di Stockes sul movimento di un liquido in un tubo, che dipende dalla densità, dal peso specifico, dalla vischiosità, dall’attrito e dalla temperatura.

Le lampade elettriche erano incassate nel soffitto e riparate da un vetro spesso e semiopaco. Quanto più ci si inoltrava nella costruzione, tanto più la luce si faceva viva e all’ingresso della camera, sbarrato da una levigata porta d’acciaio, diventava di un freddo accecante biancore.

Vicino alla porta regnava quell’eccitazione particolare che sempre si impadronisce dei costruttori e dei montatori prima della prova generale di un nuovo macchinario. I manovali lavavano il pavimento inondandolo con l’aiuto di canne di gomma. Un anziano chimico col camice bianco effettuava davanti alla porta chiusa le misurazioni di pressione. Reineke impartì l’ordine di aprire la porta della camera. Entrando nello spazioso locale dal cielo di cemento che sovrastava basso, alcuni ingegneri si tolsero il cappello. Il pavimento della stanza era costituito di pesanti lastre di alluminio incastrate in cornici di metallo che combaciavano ermeticamente tra loro. Quando il meccanismo era in funzione, manovrato dal centro di comando, le lastre che componevano il pavimento si spostavano in posizione verticale e il contenuto della camera scompariva nei locali sotterranei. Lì la materia organica sottostava al trattamento di brigate di stomatologi che ne estraevano il metallo prezioso utilizzato per le protesi. A questo punto veniva messo in azione il nastro trasportatore che portava la materia organica ormai priva di pensiero e sensibilità ai forni crematori ove, sotto l’azione dell’energia termica, essa subiva l’ultima distruzione, scomponendosi in concimi minerali a base di fosfato, calce, cenere, ammoniaca e in gas carbonici e solforosi.

V. S. Grossman, Vita e destino, Milano, Jaka Book, 1998, pp. 470-472. Traduzione di C. Bongiorno

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