Intervista di Gitta Sereny a Franz Stangl

Le conversazioni della giornalista inglese (ma, in realtà, nata a Vienna, nel 1908, da padre ungherese) con Franz Stangl ebbero luogo nella prigione di Düsseldorf, dopo l’ex-comandante di Treblinka era stato condannato all’ergastolo il 22 dicembre 1970. Stangl e la giornalista si incontrarono per la prima volta il 2 aprile 1971; l’ultimo colloquio si svolse il 27 giugno 1971. <<Quando tutto ciò arrivò alla fine – scrive la Sereny – voleva morire e io non fui né sorpresa né dispiaciuta quando morì d’infarto, 19 ore dopo che l’avevo lasciato>>.

Che cosa faceva dopo colazione?
Alle 8 circa andavo nel mio ufficio.

A che ora arrivavano i deportati?
Di solito a quell’ora.

Andava ad assistere agli arrivi?
Non necessariamaente. A volte ci andavo.

Quante persone arrivavano con un trasporto?
Di solito 5000. A volte di più […] Per occuparsi di un trasporto di solito ci si mettevano due o tre ore. Alle 12 pranzavo e dopo mi prendevo una mezz’oretta di riposo. Poi un altro giro e altro lavoro d’ufficio.

E la sera cosa accadeva?
Dopo cena ci si sedeva a chiacchierare. Quando arrivai la prima volta erano soliti bere per ore in mensa. Ma io feci cessare questa abitudine. In seguito bevevano nelle loro stanze.

Ma lei cosa faceva? Aveva amici, qualcuno con cui pensava di avere qualcosa in comune?
Nessuno. Nessuno con cui poter realmente parlare. Non ne conobbi nessuno.

Anche dopo un po’? Dopo un mese?
Si strinse nelle spalle. Che cos’è un mese? Non ho mai trovato nessuno […] con cui potessi parlare liberamente di quel che pensavo di questa Schweinerei [porcheria]. Di solito andavo nella mia stanza e poi a letto.

Leggeva?
Oh, no. Non avrei potuto leggere, lì. Ero troppo agitato… L’elettricità s’interrompeva alle 22, dopodiché la sera tutto era tranquillo. Tranne ovviamente quando i deportati erano talmente tanti che bisognava lavorare anche di notte. […]

Direi la verità se affermassi che lei si abituò alle uccisioni di massa?
Ci pensò un istante. A dire il vero, disse poi lentamente dopo averci pensato, uno effettivamente ci si abituava.

Ci vollero giorni? Settimane? Mesi?
Mesi. Passarono mesi prima che potessi guardare uno di loro negli occhi. Reprimevo tutto cercando di creare un posto speciale: giardini, baracche nuove, cucine nuove, tutto nuovo – barbieri, sarti, calzolai, falegnami. C’erano centinaia di modi per distogliere la mente. Io li usai tutti.

Anche così, se sentiva tutto questo con tanta forza, ci devono essere state volte, forse di notte, al buio, in cui non riusciva a evitare di pensarci.
Alla fine l’unico modo di affrontare tutto era bere. Portavo un bicchiere colmo di brandy a letto con me ogni notte e bevevo.

Penso che stia evitando la mia domanda.
No, non intendevo; certo che mi venivano i pensieri. Ma li scacciavo. Mi concentravo sul lavoro, sul lavoro e solo sul lavoro.

Direi il vero se affermassi che finì per pensare che non fossero realmente esseri umani?
Quando feci un viaggio, anni fa in Brasile, disse, con il volto profondamente concentrato e rivivendo evidentemente l’esperienza, il treno si fermò vicino a un mattatoio. Il bestiame nei recinti, udendo il rumore del treno, si avvicinò allo steccato e si mise a fissare il treno. Le bestie erano molto vicine al mio finestrino, una accanto all’altra, guardandomi attraverso lo steccato. Allora pensai: “Guarda un po’, questo mi ricorda la Polonia; era proprio il modo in cui la gente guardava fiduciosamente poco prima di finire nei barattoli…”.

Ha detto barattoli, lo interruppi. Può spiegarmi che cosa intende dire?
Ma continuò senza avermi sentito – o senza rispondermi.Non potei più mangiare carne in scatola dopo quella vista. Quegli occhi grandi…, che mi guardavano… non sapendo che in breve tempo sarebbero tutti morti. Si fermò. Il viso era tirato. In questo momento sembrava vecchio e stanco e vero – era il suo momento della verità.

Perciò lei non riteneva che fossero esseri umani?
Carichi, disse con un tono particolare. Erano carichi.

Alzò la mano e l’abbassò in un gesto di disperazione. Entrambi rimanemmo in silenzio. Fu una delle poche volte, in quelle settimane di colloqui, che non fece alcuno sforzo di mascherare la sua disperazione, e il suo dolore senza speranza gli concesse un istante di simpatia.

Quando crede di aver cominciato a pensare a loro come a carichi? Dal modo in cui parlava prima, del giorno in cui arrivò la prima volta a Treblinka – l’orrore che provò vedendo cadaveri ovunque – allora per lei non erano
carichi, vero?
Penso che la prima volta fu quando vidi il Totenlager a Treblinka. Ricordo che c’era Wirth.

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